Recensione: Wildhoney
Quest’album è semplicemente bellissimo. Bello l’artwork, bellissimi, onirici e vagheggianti i testi delle canzoni, bellissime le parti strumentali, intricate e con continui richiami ad un’ancestralità particolarissima, insomma un’opera inimitabile ed inarrivabile, da qualsiasi verso la si guardi. Comprai questo cd quasi per caso, lo trovai vicino a “Passage” dei Samael e, chissà perchè, associo sempre le due bands da allora, anche se di punti in comune, almeno guardando Wildhoney e Passage, non se ne trovano nemmeno a pagarli. Tant’è. Questo è stato uno di quei cd che al primo ascolto mi ha fatto venire i brividi, al secondo già mi faceva schiattare la gola a forza di cantare “Whatever That Hurts”, al milionesimo ormai avevo fuso il mio lettore. Per chi come me si nutre di atmosfere rarefatte, parti vocali disperate, testi ermetici, quest’album è la summa di quanto di meglio possa essere stato prodotto in giro.
Poco conta che gli stessi Tiamat all’epoca, vennero tacciati di tradimento da chi considerava il mondo heavy fatto solo in modo standard, solo perchè Edlund e soci alle parti urlate di growl, associarono campionamenti ed effetti che non appesantiscono l’album, ma anzi lo rendono sublimamente apocalittico e cento volte più disperato. Come tutti gli albums di genere gotico e sinfonico (non mi viene nessun altra definizione plausibile) abbisogna di più di un ascolto ma, se, ripeto, siete appassionati di tempi lentissimi, e cercate nella musica non solo furia ma anche intimismo, questo cd è il miglior regalo che possiate farvi. Si inizia dal prologo “Wildhoney” e già si capisce benissimo, in 53 secondi di che pasta sono fatti questi svedesi tutta follia e genio e si prosegue con la miglior canzone di tutto il cd, quella che, quando la senti, rimandi indietro per riascoltarla cento volte alzando sempre di più il volume dello stereo: “Whatever that Hurts”. La bellezza di questa song sta nel suo semplice ma allo stesso tempo intricato archetipo che la rende furiosa quanto triste e disperata, sulfurea e claustrofobica quanto oscura e cupa; il growl del ritornello si alterna ad una voce sussurrata, quasi eterea, che rende tutta l’atmosfera insostenibile, mentre la parte strumentale sembra essa stessa una seconda voce ad intorbidire ancora di più il tutto.
Si prosegue con altre due songs quali “The Ar” e “25th floor” che non aggiungono ma nemmeno tolgono nulla al resto dell’album poichè sembrano fatte apposta da preludio ad un altro capolavoro del disco che è “Gaia”, una canzone tutta tastiere e campionamenti ma dal ritornello indimenticabile:
“…As water spins in circles twice… …Spiders, Snakes and the little Mice… Get twisted around and tumble down, when Nature calls we all shall drown…”
e si ritorna ancora alle atmosfere oniriche e ancestrali che ai Tiamat ormai s’è capito, piacciono tanto. Si passa a “Visionaire”, sulla stessa falsariga della precedente ma ricca di altri spunti e di altre mille sfaccettature da scoprire.
Insomma, senza dilungarmi ancora sul resto dell’album che ad ogni modo non può essere analizzato parte per parte senza incorrere nello spiacevole inconveniente di sminuirne il senso finale, si può parlare di “Wildhoney” come di un opera complessa, a tratti onirica, a tratti oscura, a tratti speranzosa che va presa ed ascoltata tutta d’un fiato per seguirne l’intricato filo inconscio che lega una nota all’altra e che fa dell’insieme un’arte superba che sarebbe peccato lasciarsi scappare…