Recensione: Win Hands Down
Gli Armored Saint non sono il complesso metal più conosciuto del globo ma di sicuro incarnano la quintessenza dell’heavy statunitense, nonché uno dei gruppi più devastanti in sede live (e i Metallica ne sanno qualcosa…). Dagli albori ai giorni nostri, il complesso, capitanato dal vulcanico John Bush, ha mantenuto coerenza, forza compositiva ed espressiva lungo tutta la propria carriera, sopportando la tragica perdita del mastermind David Prichard.
Viene da chiedersi se tale fede sia rimasta intatta in “Win Hands Down”, rappresentato da una copertina non esaltante, tralasciando le cover epiche ed esplosive (“Rising Fear” in primis) del primo, glorioso periodo, come fece “La Raza” a suo tempo. Certo, l’occhio vuole la sua parte ma stiamo parlando di musica, dunque, importa poco l’aspetto estetico quando la title track riesce a preservare il significato di US power dopo così tanti anni: chitarre fumanti, drumming frenetico e voce potente, altera ed aspra. Gli assoli hanno ancora quel tocco epico, crepitante di adrenalina e passione, velocità e tecnica. Il coro magnetico completa il quadro sonoro e confeziona un’opener magnifica, che coinvolge fin dal primo ascolto.
L’impatto iniziale non si affievolisce nella rutilante “Mess”, a base di ritmi sincopati e assalti massicci come esige l’ortodossia metal. Il crescendo del pre-chorus possiede una carica melodica spiazzante che fa sventolare lo stendardo dei Santi, merito del galvanizzatissimo Bush.
In “An Exercise In Debauchery” la tensione narrativa viene mantenuta alta dalla voce uncinante di John (un vero guerriero, dotato di energia inesauribile dietro al microfono!). Non cessa di stupire la capacità degli Armored Saint di tirare fuori dal cilindro (o dall’elmo, se preferite) pattern emozionanti, regali e scevri da banalità anche in canzoni più lunghe della media.
La successiva “Muscle Memory” non ha solo un titolo curioso ma introduce parti più meditate. L’enfasi di Bush è sempre l’arma fedele del Santo Corazzato. Arma letale ma non l’unica dell’arsenale del nostro guerriero: là dove non ti aspetti, il combo si mantiene fedele al credo e infligge vibrati fieri e altisonanti. Cosa non da tutti, se pensiamo che è l’ennesimo shot efficace di una certa durata.
“That Was Then, Way Back When” ci restituisce un’immagine “borchie ed asfalto”, metallers al galoppo su moto cromate. Urli di incitamento esplodono e con essi tutta un’inflessione heavy spiccia, concisa, senza ruffianate da radio FM. Rimane sempre forte la volontà di non saturarsi sulla stessa metrica o su un ritornello di facile presa. Cosa che rende ancora più grandi gli Armored, essendo in grado di coinvolgerti senza ricorrere a schemi prevedibili e ripetitivi (ascoltare per credere i nervosi cambi di tempo che si succedono senza riposo in un’orgia sonora!). La faccenda si esemplifica con “With A Full Head Of Steam”, che rimane godibile grazie alla velocità e a pochi tentennamenti. John duetta con la controparte femminile Pearl Aday nella frenesia generale, e in questa cavalcata c’è spazio per il solismo ritmico, frutto della sinergia Gonzo/Vera.
Nulla da eccepire ma i punti di forza di questo platter sono ben altri e si possono trovare piuttosto al cospetto di “In A Instant”. Canzone delle più articolate, “In A Instant” dimostra ancora maggiore forza espressiva e coinvolgimento a dispetto della durata: c’è il momento per il cordoglio (la delicata malinconia dell’acustica) e l’adrenalina a fiotti. Un flusso continuo dove il guitar play può duellare e trasportarci attraverso originali, drammatici assoli (alla fine del secondo minuto) fino a raggiungere veri e propri turbini di note. E tutto questo senza uno sbadiglio. Ampio respiro, dunque, sia per la sezione strumentale che per le liriche, che qui godono della grande capacità di immedesimazione del frontman.
“In A Instant” mostra uno dei picchi del platter ma prima che il Santo si ritiri nel suo monastero, “Dive” e “Up Yours” vengono concesse ai “fedeli”. “Dive” fluisce lentamente tra il ripetitivo piano, l’accompagnamento dell’acustica e backing vocals eterei. Atipico per la tradizionale proposta del combo, è un pezzo evocativo e plumbeo, che cattura l’attenzione dopo un secondo ascolto ed “osa” inserire aperture sinfoniche. “Dive” rappresenta quella mosca bianca che appare di tanto in tanto nei dischi delle heavy bands, che vogliono variare e smorzare l’impatto del platter per un effetto d’atmosfera, ricordando quello fatto di recente dai Raven con la lenta “River Of No Return”, nell’ultimo album “ExtermiNation”.
“Up Yours” è di ben altra pasta e ha una carica rovente che ricorda pure i vecchi Riot. E qui la semplicità è tutto tranne un difetto: Bush è perfettamente a suo agio con i ritmi massicci ed incalzanti e sa sprigionare galoppante energia come faceva ai tempi di “Mutiny On The World”. Brano diretto che si inserisce come ottimo collegamento tra passato e presente, movimentando l’atmosfera e riducendo le divagazioni rispetto ai pezzi più impegnati.
Incredibile ma sembra che i Nostri abbiano bevuto dal Santo Graal: “Win Hands Down” è un ritorno travolgente, scritto con maggior impeto di un esordiente, vantando ancora una scrittura epidermica e un singer che non ha perso una stilla della sua aura distruttiva. Mentre la concorrenza arranca e vive seguendo gli spettri del passato, gli Armored Saint cavalcano senza tregua sul campo di battaglia, reclamando il posto tra gli dei del metallo.
Eric Nicodemo