Recensione: Winds of Change
In tema di nomi di peso ed al limite della leggenda, Frontiers in questo aprile 2019 non ha davvero badato a “spese”.
Insieme ad uscite di grande prestigio storico come quelle di Michael Thompson, Alan Parsons e Fortune, pare quasi esagerato allineare anche la nuova opera di un altro illustrissimo padrino del rock melodico come Jim Peterik, alle prese con il secondo capitolo del suo side project intitolato “World Stage”.
Tant’è: piatto molto ricco e sovraccarico di lavoro per le nostre orecchie sempre assetate di buone melodie, spunti di elegante classe e brani in cui l’equilibrio tra gagliarde suggestioni AOR e ritornelli facili ed immediati rappresentano un menù consolidato.
Queste del resto, le coordinate precise entro cui si orienta da sempre la produzione artistica di un “vecchio marpione” come Peterik, dai monumentali Survivor, passando per i Pride of Lions, sino ad arrivare a questa sorta di parata di stelle, rassegna “alla star” di grandi interpreti melodic rock che impreziosiscono con prevedibile eccellenza una serie di brani i quali, già da par loro, rappresenterebbero un brillante compendio incentrato su come dovrebbe essere un ottimo e vincente album di AOR eighties style.
Questo sa fare Peterik: scrivere canzoni AOR con uno stile inconfondibile che è praticamente un marchio di fabbrica. Ed il bello è che, nella stragrande maggioranza dei casi, il prodotto della sua penna è in grado di elevarsi al di sopra della gran parte delle uscite in tali ambiti. Una costante che ne avvolge e descrive l’intera carriera con inossidabile e pervicace costanza.
Insomma, poco da fare: se è quel peculiare stile melodico che ha reso grandi i Survivor ciò di cui si va alla ricerca, non serve girovagare ma conviene, piuttosto, “rifornirsi” alla fonte.
Con un disco griffato Jim Peterik si va sul sicuro.
Grandi voci, belle melodie. Un’associazione che marchia con forza anche “Winds of Change”, mettendo in fila una serie di comparsate illustri a cavallo di brani scritti con il consueto stile carico di passione che vivono di sensazioni positive, armonie solari e vibrazioni luminose.
Un salto indietro nel tempo alla radice degli anni ottanta. Un viaggio a ritroso che potrà apparire fuori moda e anacronistico, del tutto decontestualizzato da un’epoca che non vive certo di sentimenti ottimisti e suoni edulcorati.
Fatto sta che l’ascolto di brani tanto piacevoli, ben strutturati, ben suonati e cantati rappresenta, per chi ne sa apprezzare i valori, una sorta di balsamo per orecchie ed anima.
Il Kevin Chalfant di “Sometimes You Just Want More” che ricorda i grandiosi The Storm, la voce di Toby Hitchcock a scolpire “Home Fires” – così tanto vicina ai Pride of Lions – ed il grandissimo Danny Vaughn su “Hand I Was Dealt” sono, ad esempio, tre passaggi di quota stellare in un disco che riserva in pratica solo momenti di alto livello. Alcuni più elettrici, altri maggiormente soffusi, tutti comunque ugualmente ispirati e forniti di un motivo valido per essere ascoltati più volte con piacere e soddisfazione.
Una canovaccio, in effetti, piuttosto vario. Non solo ballate, ci sono pure i momenti più divertiti di “Avalanche” (i gemelli Nelson al microfono, altra grande ospitata), le situazioni energiche e corali alla Night Ranger di “I Will What I Want” (guarda caso con Kelly Keagy protagonista) e gli sprazzi d’eleganza orchestrata cara ai Chicago di “You’re Always There” (sempre “non” a caso, caratterizzata proprio da Jason Scheff degli stessi Chicago).
Pare davvero che Peterik abbia cucito su misura per ogni interprete un brano apposito, modellandolo su caratteristiche vocali e riferimenti specifici mutuati dalla carriera di ognuno. Quando si parlava, in apertura, di una sorta di compendio dell’AOR anni ottanta, in effetti, non era per puro esercizio accademico o facile retorica: l’idea che la sostanza dell’opera sia proprio quella, emerge con forza al proseguire degli ascolti, rendendo limpida la sensazione di un album pensato e costruito con quell’intento preciso.
Ci piace infine concludere questa recensione commentando brevemente proprio il brano posto in chiusura di scaletta, “Love You All Over The World”, forse l’ultima testimonianza lasciata ai posteri dal’immenso Jimi Jamison. Un pezzo romantico alla Survivor che – inevitabilmente – riesce a commuovere, facendo risuonare ancora per un po’ la straordinaria ed insostituibile voce di un’icona mai dimenticata dell’AOR americano.
Un modo alquanto riuscito per chiudere con sentimento una produzione di grande impatto, scritta, eseguita ed interpretata brillantemente da quelli che potrebbero essere considerati alla stregua di “maestri Jedi” del genere melodico.
Come si dice spesso in questi casi: ecco un serio candidato alla top ten di fine anno!