Recensione: Winter’s Gate
Gli Insomnium sembrano non volersi fermare e, quando pensi che abbiano davvero detto tutto, eccoli tirare fuori dal cilindro qualcosa che rimescola ancora le carte in tavola. Winter’s Gate, settimo album della band finlandese, azzarda approdando in un lido frequentato da pochissime band, ovvero il disco composto da un unico brano. Alcuni di questi album, a volte poco digeriti causa una fruizione decisamente “scomoda”, sono veri e propri capolavori in grado di essere annoverati tra i migliori album mai usciti del nostro genere preferito. Basti pensare a Crimson, In Umbra Malitiae Ambulabo, In Aeternum In Triumpho Tenebraum o il supremo Light Of Day, Day Of Darkness, c’è di che leccarsi i baffi e ce n’è per tutti i gusti. Gli Insomnium entrano quindi di prepotenza nel sottoinsieme con un album che farà inevitabilmente storcere il naso a molti, ma, come vedremo, in maniera assolutamente erronea.
Winter’s Gate è un concept album, è la stessa sua struttura a richiederlo, ed è un brano di una quarantina scarsa di minuti basato su un racconto scritto da Niilo, cantante e bassista della band. E’ la storia di Asbjörn, Sigurd, Sìne e del piccolo Ulf, vichinghi arrivati in un’isola a ovest dell’Irlanda alle porte dell’inverno. La storia ha vinto alcuni premi in Finlandia tra il 2007 e il 2008 ed è davvero molto valida; ovviamente qui parleremo del disco senza spoilerare o rovinare la sorpresa ai fan, che troveranno nell’artbook l’edizione definitiva in grado di offrire Winter’s Gate in tre lingue (finlandese, inglese e tedesco) ed un audiolibro narrato dallo stesso Niilo.
Il concept è liricamente diviso in sei movimenti; per comodità, anche noi ci baseremo su quelli.
Slaughter Moon e i primi sei minuti della composizione, mixata da un certo Dan Swanö, mettono subito in chiaro le cose con un assalto frontale e da urlo, con alti picchi emotivi in perfetto stile Insomnium. Il tema portante sul blast beat è grandioso, epico e sprizza magniloquenza da tutti i pori; il cantato nel tempo in due quarti seguente aumenta il ritmo ma non troppo e il ritornello di questa prima parte si rivela decisamente azzeccato e ricco di pathos. Non vi son pause in Winter’s Gate e, tra un blast beat e l’altro, si passa in maniera pressoché naturale a The Golden Wolf, il secondo movimento che, dopo una breve parentesi acustica e sussurrata, esplode con un riff in grado di abbattere montagne e un tema in battere da tramandare ai posteri. Si procede con un ottimo alternarsi acustico – distorto, inclusa la ripresa del magnifico tema, verso un momento progressive metal in grado di creare un’ottima atmosfera. Vengono chiamati in causa persino i Tool con un mood che li ricorda in maniera però più lineare e la voce parlata fa il suo sporco lavoro fino all’apertura marziale e drammatica sorretta da un riuscitissimo semi-growl. La parte melodica qui è di alto livello, emozionante e altamente evocativa; con uno stile finale puramente pagan ci avviciniamo al giro di boa.
At The Gates Of Winter spiazza completamente l’ascoltatore con un momento acustico dai fortissimi richiami anni ’60 – ’70, che sfocia presto nel solito melodeath epico e ricco di groove; magnifica la parte in clean assieme a quella degli assoli, con la band in totale stato di grazia. The Gate Opens offre un’introduzione nella quale non ci si fa mancare nemmeno il pianoforte, seguita da un ottimo funeral doom che tanto ricorda i grandissimi Swallow The Sun e il loro Songs From The North parte 3. Il mood si sposta poi verso lidi cari agli Amon Amarth ed è altamente evocativo; il crescendo successivo è da manuale e le melodie non risultano mai banali o artefatte ma sempre in grado di coinvolgere ed emozionare. In molti passaggi ci si figura i personaggi, li si vede e si vive la storia insieme a loro e questo è un grandissimo pregio dell’opera. Un breve stacco ci conduce verso il gran finale, The Final Stand, nel quale torna a fare capolino il tema iniziale in un tripudio di blast beat in grado di smuovere montagne intere in tonalità più bassa e potente. Lo screaming misto growl di Niilo qui raggiunge il suo apice e accompagna l’ascoltatore verso la conclusione acustica del tutto, Into The Sleep.
Inutile parlare della produzione, o della prestazione dei singoli perché davvero non ce n’è bisogno; Winter’s Gate è un album pressoché perfetto nonostante la sua controtendenza di base e un voler essere contro ogni logica di marketing attuale. La traccia unica funziona eccome, ed è in grado di regalare momenti grandiosi e, siamo certi, anche di resistere nel tempo in quanto opera completa a 360 gradi. Questo è un disco di quelli di una volta, scritto e suonato con cuore e sangue e che finalmente offre un minutaggio giusto senza passaggi a vuoto o riempimenti di sorta. Non c’è bisogno di sedici Blu Ray e 687 ore di musica per produrre qualcosa di buono, come non c’è bisogno di avere l’uso del tasto skip quando si mette su Winter’s Gate, non è necessario.
Gli Insomnium centrano il punto ancora una volta e fanno letteralmente il botto; le chiavi del melodeath odierno sono nelle loro mani assieme ai connazionali Mors Principium Est. Null’altro va segnalato, tranne che è giunta l’ora di aprire il portale dell’inverno, sperando magari in un tour con la traccia presentata interamente.
Sing a quiet song to me
Sing of spring and sing of sea
Sing a silent song to me
Sing of hope and sing of sleep