Recensione: Within Death
Dall’Australia, continente nuovo, arriva il debut-album dei The Plague, “Within Death”. Old school death metal. Musica vecchia.
Una stridente contraddizione che, una volta di più, va a rinfocolare la leggenda dello swedish death metal. Un genere che raccoglie numerosissimi accoliti in tutto il Mondo, raggruppati in altrettante numerosissime band che fanno di questo (sotto)genere la loro ragione di vita.
Il perché di questa sostanziale anomalia del metal moderno, che si trascina dietro, intatto, qualcosa che ha ormai trent’anni di vita, non è facile capirlo. Tenuto conto, pure, della giovane età media dei relativi musicisti. Allora, non resta che pensare al mito per davvero. Un qualcosa che ha lasciato un segno profondo nella Storia del metallo della morte ma non solo, e che funge da punto di riferimento inamovibile per carriere del tutto simili fra loro.
Simili anche nel sound. Sì, perché la vecchia scuola ha dei dettami stilistici i quali, oltre a essere precisi come un orologio svizzero, non devono assolutamente presentare segni di evoluzione o di progressione artistica. Altrimenti si esce fuori dai binari, peraltro con estrema facilità.
Questa integerrima fedeltà a uno stile immerso nella formaldeide per conservarne ogni più piccolo dettaglio, purtroppo, almeno a parere di chi scrive, chiude con forza la forbice della variabilità. Come dire che i gruppi che praticano questa foggia musicale suonino tutti nello stesso identico modo. Il che è, anche in questo caso… purtroppo, una realtà sotto gli occhi anzi le orecchie di tutti.
Un lungo preambolo, questo, per dire molte cose sui The Plague, fieri condottieri permeati sino all’osso dalla vecchia musica più su citata. Growling non particolarmente profondo, stentoreo e possente, tuttavia lontano delle esagerazioni, per esempio di certo death metal attuale. Chitarre dal famigerato suono zanzaresco, che mettono sul tavolo una quantità enorme di riff, sezione ritmica che pesta come una dannata, mantenendosi su mid o up-tempo ma senza valicare la barriera dei blast-beats. Tutto già scritto, tutto già ascoltato, insomma.
Quindi, per emergere da un suono trito e ritrito, occorre scatenare il talento compositivo. Sempre che ci sia. Quello del combo di Sydney non è eccezionale ma nemmeno da buttare via. Benché essi si siano messi assieme soltanto cinque anni fa, sono riusciti nell’intento di delineare un suono praticamente perfetto. L’esecuzione è davvero eccellente, così come l’incatenamento fra i vari strumenti e la voce; per un insieme compatto, coeso, dal taglio professionale. Ma anche potente, massiccio e, circostanza forse più rilevante, assai dinamico (‘Within Death’). Difficile, quindi, tenere fermo il piede per seguire in generale le battute del drumming, data la scioltezza naturale che pervade la successione degli accordi sparati dalle due asce da guerra. Si può quindi affermare senza ombra di dubbio che i Nostri propongano old school death metal nel complesso irreprensibile, privo di errori, indecisioni, tentennamenti. Un muro di suono assolutamente ben costruito su cui schiantare la scatola cranica.
Anche se qua e là spunta un po’ di melodia (‘Dismal Solitude’), essa non è sufficiente a fungere da base per un insieme di canzoni dal quale è arduo estrarre qualcosa di memorabile o, meno, di riconoscibilità intrinseca. I brani scorrono via con scioltezza, ben oleati fra loro, tuttavia alla fine dei conti anche dopo numerosi ascolti non rimane granché di essi, in memoria. Anche questo difetto congenito che si osserva spesso nello swedish di oggi.
“Within Death” è un lavoro sufficiente, se guardato a 360°. Ma nulla più. Encomiabile la fedeltà alla linea, su questo non ci piove, ma alla fine si tratta di masticare cliché abbondantemente proposti e riproposti.
Daniele “dani66” D’Adamo
https://youtu.be/eWJiSm9vlz0