Recensione: Woe to the Vanquished
Quinto album per i californiani Warbringer, che a quattro anni dal precedente “IV: Empires Collapse” tornano a mettere a ferro e fuoco il mondo con questo “Woe to the Vanquished” e il loro thrash metal furibondo e sferzante. I numerosissimi cambi di formazione non sembrano aver influito granché sulla tenuta del gruppo, né tantomeno sulla loro capacità di sprigionare energia e prendere a randellate l’ascoltatore con un lavoro, sì debitore dei nomi storici del settore (Exodus, Testament e Slayer su tutti), ma anche in grado di dire prepotentemente la sua in mezzo ai nuovi alfieri del genere.
Partenza a razzo con la possente “Silhouettes”, opener muscolare e ritmata che scopre le carte fin dalla prima mano, seminando violenza e cattiveria con i suoi fulminanti cambi di tempo. Il basso è spesso in evidenza, pulsa il giusto e dona un’incredibile rotondità alla proposta del quintetto (anche grazie a una produzione bella grassa), accompagnando egregiamente una batteria insistente e l’ottimo lavoro delle chitarre. Sopra tutto, la voce furibonda di John Kevill, colonna portante del combo d’oltreoceano fin dalla fondazione. La frenetica title-track procede sulle stesse caratteristiche, e anzi esaspera ancor più la carica aggressiva del gruppo stemperando gli echi slayeriani disseminati un po’ dappertutto con una seconda parte più scandita che ci traghetta direttamente nella successiva “Remain Violent”. Qui le velocità si fanno meno sostenute, lasciando spazio a passaggi più canonici in cui si fa strada una certa anthemica caciaronaggine da parte dei nostri sebbene, a conti fatti, la traccia serva più per riprendere fiato dopo l’accoppiata iniziale in vista della sfuriata che seguirà. Eh sì, perché se è vero che “Remain Violent” mantiene una certa corposità di fondo pur navigando a mezza velocità, con la slayeriana “Shellfire” i nostri tornano a pestare come dannati, dispensando rasoiate chitarristiche senza criterio e sorretti da una batteria poderosa. Il rallentamento centrale che prelude l’assolo instilla gocce di serpeggiante malignità nell’amalgama sonoro dei nostri eroi, anche se in pochi secondi si torna alle impietose martellate che hanno dominato la prima parte del brano. “Descending Blade”, dopo una partenza che faceva presagire un altro momento di pausa, si ributta nella frenesia tipicamente slayeriana mantenendo ritmi sostenuti e, soprattutto, giocando con un chitarrismo esasperato e ritmiche battagliere che metteranno a dura prova più di una colonna vertebrale. Il rallentamento centrale serve solo per concedere un attimo di riposo prima di precipitare di nuovo nel regno dell’headbanging, mentre John omaggia il nume tutelare Tom Araya con le sue urla furiose. Con le prime note di “Spectral Asylum”, invece, si percepisce che qualcosa è cambiato: disperazione e malignità si fanno largo tra i riff e gli arpeggi di Adam e Chase, avvelenandone l’abituale violenza e donando al brano un sapore più oscuro. Con l’andare dei minuti la traccia si irrobustisce pur rimanendo ancorata alla malignità iniziale, e nonostante qualche sprazzo di melodia meno opprimente in prossimità dell’assolo il sentimento più rappresentato da questo pezzo resta sempre un’angoscia furiosa. Niente male. “Divinity of Flesh” torna a lidi più propriamente thrash, robusti e brutali, con inaspettate schegge di melodica solennità che si fanno largo di tanto in tanto tra i riff vorticosi della coppia d’asce. Anche qui i cambi di tempo consentono al brano di svilupparsi in più di una direzione pur mantenendo inalterata la sua carica, anche grazie al gran lavoro del basso. Chiude quest’ottimo “Woe to the Vanquished” la lunga e a tratti meditabonda “When the Guns Fell Silent”, che lungo i suoi undici minuti riesce a spaziare tra la furia del thrash e la malignità di certo black, screziando il tutto con melodie intense e sofferte e passaggi più trasognati. Nonostante la lunga durata, il pezzo non annoia mai e si discosta da quanto proposto dal gruppo nelle precedenti tracce, distendendosi delicatamente (beh, si fa per dire) tra arpeggi raccolti e rapide sfuriate dal piglio solenne, il tutto condito dalla voce di John che, per l’occasione, stempera la sua rabbia quel tanto che basta per non finire fuori registro.
Sarò onesto: terminato l’ascolto di “Woe to the Vanquished” mi sono sforzato di trovare dei punti negativi nell’album e non ci sono riuscito: le tracce scorrono alla perfezione, sono prodotte molto bene e suonate con la giusta grinta e la cattiveria che mi aspetto in un album thrash; inoltre tutti gli strumenti si amalgamano ottimamente per creare il classico muro sonoro che non può mai mancare in una proposta di questo genere, e la durata del lavoro consente di mantenere alto il livello di attenzione senza perdersi per strada. Certo, ci sono un paio di episodi leggermente sottotono, ma nel complesso stiamo parlando di un ottimo album, aggressivo, ottimamente bilanciato e compatto, che non dovrebbe mancare nella collezione di ogni amante di certe sonorità.
Gran bel lavoro, ragazzi.