Recensione: Wolves of Karelia
Quinto album per Tuomas Saukkonen e i suoi Wolfheart, “Wolves of Kaerlia” arriva a due anni di distanza dal suo predecessore, “Constellation of the Black Light”. Autori di un intrepido mix di folk e death melodico, impreziosito da possenti orchestrazioni e rapide sferzate black e da loro stessi definito winter metal, i nostri portano avanti il loro discorso coniugando una musica poderosa e di innegabile qualità a testi riguardanti battaglie e scontri all’ultimo sangue in un ambiente ostile e selvaggio. Certo, detta così ci si potrebbe aspettare l’ennesimo gruppo carta–carbone uguale a mille altri, dedito alla riproposizione dei medesimi clichés. La realtà è un po’ diversa. Sì, è vero, il genere bene o male è sempre quello, ma è altrettanto vero che il quartetto finnico si dimostra capace di mettere parecchia carne al fuoco e di saperla cuocere alla perfezione, mitigando la giusta dose di violenza con melodie poderose e guarnendo il tutto con atmosfere ora selvatiche e ora nostalgiche. Il risultato è un lavoro agguerrito, dinamico e anche bello intenso. I Wolfheart conoscono perfettamente la materia e sanno bene dove vogliono arrivare, godendosi il viaggio senza fretta ma ben saldi nella direzione da tenere, e riescono così a miscelare sapientemente rabbia e malinconia creando un tessuto sonoro che, seppur con qualche manierismo qua e là, si dimostra omogeneo ma anche molto ben strutturato.
Un incipit atmosferico e solenne, dall’intenso profumo cinematografico, apre “Hail of Steel” immergendo così l’ascoltatore nel mondo innevato del quartetto. La sveglia arriva al minuto 1:18, col growl iracondo di Tuomas che si distende su un tappeto di death melodico aggressivo e quadrato punteggiato, però, da insistenti tastiere di stampo eroico. Il rallentamento che apre l’ultimo quarto impenna il tasso anthemico del pezzo, aprendo a un solo carico di pathos che chiude la canzone e ci traghetta alla successiva “Horizon on Fire”. Qui, un arpeggio dimesso cede presto il passo a una furia viking un po’ cafona ma di sicuro impatto. I ritmi si mantengono veloci, bellicosi, con una sezione ritmica inferocita e chitarre gelide e sferzanti ma non prive di una precisa melodia, rafforzata durante il breve ma caldo assolo. La bufera di neve si intensifica nella seconda metà del pezzo, più votato a variare tono giocando tra gli improvvisi squarci melodici e riff carichi, pieni. “Reaper” parte in modo tipicamente viking, passando da tempi medi ad improvvise accelerazioni dal profumo black, salvo poi riprendere la melodia sentita in “Horizon…” per punteggiare i vortici chitarristici in attesa del finale incombente. “The Hammer” si impossessa di questa nota truce inframmezzando ritmi scanditi, cupi e minacciosi, a rapide frustate. Le tastiere continuano a giocare un ruolo assai rilevante nell’economia sonora dei nostri, sostenendo il resto degli strumenti per donare rotondità ed enfasi al tutto, ponendo l’accento su questo o quel passaggio a seconda delle necessità. La parentesi acustica in chiusura scarica la tensione montata durante il pezzo, scivolando nella breve “Eye of the Storm”, malinconico interludio atmosferico in cui si riprende il fiato grazie a melodie placide ma non del tutto innocenti. “Born From Fire” parte tronfia, sostenuta da tempi quadrati e chitarre smargiasse: il pezzo si mantiene su queste coordinate, se si esclude la breve accelerazione centrale che ne spezza l’incedere, per poi indulgere nuovamente in un finale dai tratti sognanti dominato dalle tastiere. L’apertura di “Arrows of Chaos” sembra puntare maggiormente sul trionfalismo spinto garantito da ritmi marziali e melodie fastose. Echi di black melodico fanno capolino di tanto in tanto, insinuandosi tra i riff cafoni e rapide accelerazioni sempre guardate a vista da tastiere magniloquenti che, qui più che altrove, si dimostrano capaci di costellare un pezzo niente male con sprazzi di intrepida arroganza, contribuendo così ad innalzarne il livello. Chiude l’album “Ashes”, traccia variegata in cui i nostri giocano con i vari aspetti della loro proposta, concentrandosi però un po’ di più sul comparto prettamente melodico. La partenza compassata e sognante si carica di volta in volta di nuovi elementi, acquisendo sostanza grazie agli inserimenti di chitarra più corposi ma senza perdere la sua eterea evanescenza, che poi sfuma in un finale dal sottofondo malinconico ma anche abbastanza enfatico.
Come già scritto in precedenza, “Wolves of Karelia” prosegue, seppur con qualche variazione, il discorso intrapreso da Saukkonen e dalla sua brigata diversi anni or sono: il loro death melodico ruggente e maestoso trasmette le giuste emozioni, avvolgendo nel suo mondo selvaggio, violento e freddo ma anche dotato di una certa elegiaca bellezza. Un lavoro che, seppur senza inventare nulla, dimostra carattere e passione, nonché una immediatezza tutt’altro che sbrigativa.
Ben fatto.