Recensione: Wonderful Race
Com’è che diceva quell’insopportabile professoressa con la puzza sotto al naso che, almeno una volta nella vita, tutti hanno avuto la sfortuna di trovarsi in cattedra?
“Ha le capacità e potrebbe fare di più, ma per ora non si applica a sufficienza”.
Voilà, ecco in una riga il succo di questo primo album dei cremonesi Highway Dream (già apparsi su queste pagine in occasione del demo edito nel 2009), band che sin da moniker, copertina e titolo del cd, lascia intendere a qualche chilometro di distanza (giusto per rimanere in tema di autostrade) quali siano il genere proposto e lo stile abbracciato.
Hard rock come solo negli States delle lunghe Highway (ecco, appunto) erano soliti confezionare negli anni ottanta, con tanto di muso di una potente Mustang in copertina e fantasioso immaginario da fiera del tuning evocato da un “Wonderful Race” in bella vista, titolo che vorrebbe essere al tempo stesso augurio e garanzia per una inebriante corsa sonora a base di sferraglianti sgommate heavy rock come si usava all’epoca di Mad Max.
Niente male il proposito, qualche dubbio in più – proprio come avevamo avuto modo di sottolineare in occasione di “Born To Be” – lo riserviamo sui risultati.
Non che “Wonderful Race” sia, visto nel suo complesso, un prodotto di infima qualità o sprovvisto di quelle che potrebbero essere armi vincenti. I passi avanti sono evidenti. Eppure, anche stavolta più l’ascolto procede, più l’idea che si fa concreta è quella d’incompletezza ed ingenua inesperienza: come se la rincorsa a tutti i più comuni e banali stereotipi previsti dal genere – una cosa del tutto voluta, proviamo a supporre – si sia tramutata, in realtà, nel più grosso limite di un disco che, in tal modo, non lascia particolari spazi a fantasie e sussulti creativi.
C’è un comparto tecnico che vale parecchio, con un chitarrista – Roberto Zoppi – indubbiamente di livello. Esiste una sezione ritmica in grado di pulsare dignitosamente e di fornire un buon groove ai brani. Ci sono tante idee buttate alla rinfusa, una voglia evidente di far sul serio e qualità oggettive nel tentare di stupire al primo colpo.
Ma allo stesso modo, ecco melodie poco incisive, talora appesantite da una scarsa coesione tra assolo e ritornelli, un songwriting che non ha molto di personale ed una voce, quella di Isabella Gorni, che – pur dotata di timbro gradevole – spesso offre l’impressione di non essere precisamente adatta ad un genere concettualmente selvaggio come l’hard rock tagliato con l’heavy.
Troppi i passaggi accesi in cui la volonterosa Gorni sembra un po’ trascinarsi, senza in realtà riuscire ad padroneggiare in modo definitivo la scena: indicativo come, in effetti, i momenti in cui le vocals meglio risaltano siano proprio quelli più ammorbiditi e “leggeri”.
La produzione poi, altro punto debole del disco, rischia di annebbiare i comunque discreti risvolti che s’intravedono in quello che – dopo tutto – è un cd d’esordio.
Anche questa volta, come troppe altre negli ultimi tempi, un missaggio appena sufficiente, una produzione pulita e nitida ma del tutto priva di profondità e colore per suoni che, in tal modo, non riescono davvero mai a fornire l’impatto che un album teoricamente fondato sulla prepotenza dell’hard rock dovrebbe possedere.
Nessun asfalto bollente, pochi i cavalli che scalciano: c’è ancora da lavorare un po’ su questo motore prima di poterlo definire davvero pronto per bruciare la concorrenza dei numerosissimi iscritti alla corsa.
C’è il potenziale e l’abbozzo è accettabile: mancano però parecchi dettagli per arrivare al traguardo.
Com’è che diceva la prof?