Recensione: Works in Progressive
Singolare e davvero interessante il cameo di stili proposto da questi enigmatici Twang. Enigmatici, perché la non troppo professionale confezione del demo non è certo prodiga di informazioni, e nega al povero recensore persino lo straccio di una biografia. Fortunatamente una rapida ricerca sulla rete ha permesso di riconoscere nel mastermind della band, Donatello “Dox”, uno degli axeman dell’act power nostrano Heavenblast, Donatello Menna. Chi a questo punto pensa di aver già inquadrato le coordinate del progetto solista del buon Dox è destinato a finire rapidamente sconfessato.
Come già si era anticipato, la proposta stilistica risulta molto diversificata nelle cinque tracce che compongono questo Works in Progressive. Eccezion fatta per la base strumentale, che vede Dox (chitarre e basso) affiancato dai compagni Diego “the kjakja” Chiacchierini dietro le pelli e Francesco “Gabriel” Di Giandomenico alle tastiere, un primo palese elemento di discontinuità nei brani è dato dalla molteplicità dei cantanti, ben quattro, equamente divisi tra ambo i sessi. Abbiamo così un peculiare incrocio che prevede due brani a voce singola e due duetti, intervallati da Trendscape, un breve, e a dire il vero molto gradevole, intermezzo strumentale. Buona parte del merito della riuscita del pezzo va attribuito anche al flauto di Francesco D’Imperio, apprezzabile anche sull’incipit Still Death. Un traccia ben suonata e, tra le cinque, quella forse più rappresentativa dell’eterogenea offerta dei Twang: influenze rock, ambient, folk, jazz e persino classiche si mescolano per servire un piatto decisamente invitante, fatto di melodie fresche e primaverili, soleggiate e rigogliose. In quest’occasione Angela Di Vincenzo riesce a condurre adeguatamente le linee vocali, mentre accuserà qualche calo – pur nell’ottica di una prestazione globalmente positiva – nella successiva Big Fake. Il supporto di Marco La Corte, quarto componente degli Heavenblast a prestare il suo contributo al progetto, è meno entusiasmante di quel che sarebbe stato lecito aspettarsi: le cose vanno meglio nel refrain, in cui la sintesi tra le due voci nei cori consente ai due di sopperire alle reciproche mancanze. Suggestiva l’intro orchestrale a opera di Nicholas Di Valerio, mentre chitarre e tastiere si alternano su linee melodiche coinvolgenti e non scontate. Solo la sezione ritmica, per quanto varia, risuona troppo debole e dimessa per convincere appieno.
Qualche idea da riordinare invece nella folle Undying, che propone un improbabile accostamento tra le acerbe screaming vocals di Jonny Morelli e allegre scampagnate melodiche a cavallo tra prog e jazz. Il contrasto si acuisce nel momento in cui subentra Alessia Piliego col suo scanzonato “na-na-na” a portare a termine un brano che, tra pianti di bimbo e assoli di buona fattura, appare un po’ sconclusionato e dispersivo. Apprezzabile l’idea, insomma, decisamente meno l’esecuzione.
Di certo quel che più colpisce nel demo dei Twang è la prorompente voglia di osare, accompagnata da un sorriso sicuro e dissacrante. Sicuramente diversi elementi nella proposta della band abbisogneranno in futuro di maggior cura, e tra le necessità primarie si mettono in luce quelle di rinvigorire le ritmiche e di consolidare il reparto vocale, puntando di più sulla costanza delle prestazioni.
Ma l’eclettismo della proposta, unito ad alcune melodie ben articolate e allettanti, getta solide basi per la costruzione di un’identità libera da debiti scomodi o troppo manifesti, e porta a galla nello sconfinato oceano dell’underground il nome dei Twang. Arrivati a questo punto sarebbe fatale accontentarsi: solo un’attenzione adeguata per la qualità, sotto tutti i profili, consentirà di sviluppare appieno il notevole potenziale insito in Work in Progressive.
1. Still Death (6:06)
2. Connected (5:05)
3. Trendscape (2:33)
4. The Bigh Fake (5:58)
5. Undying (4:59)