Recensione: World Circus
Sul finire degli anni 80, nel momento di massimo splendore del thrash metal, gli Stati Uniti vedevano decine e decine di nuove band affacciarsi ad un ritmo frenetico sulla scena, miriadi di gruppi, che dopo mesi passati a fare un “fottuto casino” in giro per l’America a bordo di furgoni sgangherati, giungevano al tanto agognato esordio discografico, animati da una sincera passione e dalla speranza di trovare posto tra i nomi dei loro idoli.
In quel panorama così vasto e variegato, dove di certo non mancavano formazioni mediocri e prive di originalità, alcune band riuscivano a distinguersi e ad imporsi sulle altre grazie alla loro personalità. E’ questo il caso dei newyorkesi Toxik, gruppo validissimo che riuscì a mettersi in evidenza proponendo un thrash/speed metal estremamente vario e tecnico, ricco di spunti di notevole ricercatezza e virtuosismi fuori dal comune sulla scia di band come Watchtower e Realm, tanto che finirono per essere catalogati insieme ad essi nel filone che oggi si è soliti definire “techno-thrash”, che proprio in quegli anni vedeva il suo massimo splendore.
“World Circus”, il loro disco d’esordio, è datato 1988, anno d’oro di questo stile durante il quale si susseguirono le uscite di autentici capolavori quali “If At First You Don’t Succeed” degli Hades, l’omonimo debutto dei D.B.C. (Dead Brain Cells), “Endless War” dei Realm, e sul versante europeo di “Life Cycle” dei Sieges Even dei fratelli Holzwarth, e “Deception Ignored” dei misconosciuti Deathrow. Le origini dei Toxik vannò però retrodatate di alcuni anni, a quando il chitarrista Josh Christian, colonna portante della band, e il cantante Mike Sanders suonavano insieme nei Tokyo, fino a che non decisero nel luglio del 1986 di sciogliere la band e crearne un nuova insieme al bastterista Tad Leger e al dotato bassista Brian Bonini. Nascevano i Toxik, la cui carriera fu a dir poco fulminea: dopo la pubblicazione di un ottimo demo, approdarono nell’estate del 1987 alla Roadrunner Records che lanciò la band nel circuito dei grandi concerti.
Il disco si poggia sulle solide spalle del factotum Josh Christian, autore di quasi tutte le musiche e dei testi, nonchè abilissimo con il suo strumento. Notevole alla riuscita del disco è infatti il contributo di questo autentico guitar-hero, capace di formidabili evoluzioni tecniche ma allo stesso tempo dotato di un ottimo gusto melodico che in alcune episodi fa veramente la differenza. Altro punto cardine è la voce di Sanders che si mantiene sempre su registri altissimi, un timbro che ad un primo impatto risulta difficile da digerire ma che con gli ascolti si fonde alla perfezione con il disco, divenendo uno degli elementi che più lo contraddistingue. All’epoca tuttavia Sanders non fu affatto apprezzato dalla critica, tanto che Christian per il secondo disco si vide costretto a cambiare cantante, scegliendo il suo sostituto in Charles Sabin. La sezione ritmica svolge un ottimo lavoro: il drummer si destreggia bene tra cambi di tempo repentini ed improvvise ripartenze, mentre Brian Bonini si dimostra abilissimo con il suo 4 corde rigorosamente plettrato, arricchendo i brani con linee di basso varie e dinamiche.
Si parte con “Heart Attack”, biglietto da visita della band: speed/thrash veloce e tagliente, impreziosito da azzeccate melodie vocali, ritornello in pieno stile thrash e assoli vorticosi, il tutto costruito su una struttura originale ed imprevedibile.”Social Overload” è un continuo susseguirsi di riff intricati, rallentamenti e improvvise accelerazioni, mentre “Pain And Misery” è un episodio peculiare, un mid tempo con chitarre stoppate e la voce di Sanders a far da padrona, così come in “Door To Hell” dove il cantente si lancia in acuti al limite delle umane possibilità. Nonostante l’alto livello di tutto il disco, la title-track è certamente il pezzo migliore del lotto, costruita interamente su una serie di geniali variazioni del noto motivo circense e consacrata a capolavoro da quello che può essere definito senza esagerare uno dei più bei assoli della storia del thrash metal che dopo una prima parte lanciata a velocità folle si lascia andare in uno stupendo fraseggio in sweep picking che mette in evidenza il gusto per la melodia dell’axe-man. Giunti a metà del disco la qualità non accenna ad abbassarsi, così come l’attenzione dell’ascoltatore, infatti i pezzi nonostante una dose tecnica fuori dal comune non si lasciano mai andare (tranne in rari casi) nell’auotocelebrazione e le capacità dei singoli componenti sono al servizio della buona riuscita delle song. Un attimo di respiro con il break acustico di “47 Seconds Of Sanity” e con la successiva intro di “Count Your Blessings” che fa riemergere l’anima melodica della band sia nell’arpeggio che nell’assolo iniziale. Si riprende a correre tra i virtuosismi e le finezze compositive degli ultimi tre furiosi brani che, pur senza evidenti cali qualitativi, si dimostrano meno freschi e coinvolgenti rispetto a quelli del lato A. Ciò non toglie che si possa parlare di questo album come di uno dei più interessanti lavori di questo filone, partorito da una delle band più sottolavutate del genere che certamente meriterebbe molta più considerazione di quanta fino ad oggi gli è stata tributata. Un disco assolutamente da riscoprire.
Un ultima nota per quanto riguarda i testi, un aspetto a cui la band ha sempre dato grande importanza: il disco tratta di temi sociali, primo tra i quali quello del nucleare (come si può capire dalla copertina), un problema affrontato intelligentemente attraverso una tagliente ironia. Ma l’intero disco è una aperta critica alla società occidentale e americana in particolare, che con le sue contraddizioni e le sue comiche finzioni ci appare sempre più simile ad un enorme circo, un “World Circus” dal quale distogliere lo sguardo…
…but we could save us all
Forget their religion and think for yourselves
Once, and for all, before the…
World Circus
Fabio “Skolnick” Tamburrini