Recensione: World Lobotomy

Di Daniele D'Adamo - 20 Agosto 2013 - 18:42
World Lobotomy
Band: Paganizer
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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58

 

Nono album in carriera per la cult-band svedese Paganizer, dal 1994 impegnata – con il moniker Terminal Grip sino al 1998 – nel compito di diffondere il verbo del death metal ‘puro’, trasformatosi per ovvi motivi temporali, negli anni, nel sottogenere ‘old school’. Oltre ai full-length, si possono contare due dozzine di produzioni discografiche fra demo, single, EP, split e compilation, messe lì in fila per dimostrare la grande passione per un genere che, a dispetto delle previsioni delle cassandre, continua imperterrito per la propria strada, incurante di tutto e di tutti.  

Logico aspettarsi, da Loro, un approccio alla questione consistente, dati i quattro lustri di attività. E, così, è. “World Lobotomy”, pur non discostandosi mai dalla retta via sopra citata, contiene elementi tecnici di tutto rispetto che ne disegnano pesantemente la personalità. È chiaro che il technical death metal sia un’altra cosa, ma nell’ambito stilistico in cui si muovono i Nostri l’aspetto sia esecutivo sia compositivo non sono in primo piano per quanto riguarda l’esplorazione delle possibilità di strutturazione. Anzi, spesso e volentieri si bada solo a far sì che non ci si discosti nemmeno di un millimetro dagli stilemi basilari del genere, e che siano riprodotte come si deve le sulfuree e morbose atmosfere di morte e desolazione che si respira nell’old school.    

Atmosfere cupe e opprimenti che, comunque, non mancano di fare capolino sin da “Prelude To The Lobotomy”, tenebroso incipit al pianoforte che funge, per davvero, quale preludio al lavoro. “World Lobotomy”, difatti, prosegue sul mood tetro e orrorifico dell’opener, dettato dai maligni riff delle chitarre, dal growling rabbioso del mastermind Rogga Johansson, dalle sfuriate dei blast-beats e, soprattutto – per rimanere in tema di drumming – , dal caratteristico up-tempo in quattro / quarti ‘trascinato’ à la Dismember. Il suono, poi, rende onore alla causa, lasciando un piacevole retrogusto carnoso che sa tanto di marciume e carne decomposta. Non a caso, “World Lobotomy” è stato missato e masterizzato da Ronnie Björnström dell’Enhanced Audio Productions presso i Garageland Studios (The Grotesquery, The 11th Hour, Bone Gnawer, Blodsrit, ecc.). Sinonimo di totale professionalità.

Una volta passata “The Sky On Fire” e quindi arrivata “Mass Of Parasites” incomincia a farsi strada, nella mente, un sottile quanto insistente pensiero. Quello, cioè, che il songwriting non sia particolarmente efficace e coinvolgente. Anzi, a mano a mano che scorrono i minuti pare che, più o meno, siano sempre gli stessi riff a tornare indietro a mo’ di boomerang. Difficile, insomma, riuscire a distinguere e quindi memorizzare i vari pezzi, troppo simili fra loro anche nel cantato, per rendere soddisfatto anche il più appassionato ascoltatore. Si può passare e ripassare il platter nelle grinfie del lettore più putrido e consumato che è sempre un’ardua impresa distinguere con chiarezza, per esempio, brani come “As Blood Grows Cold” da altri quali “Trail Of Human Decay”. Spezzano un po’ ma monotonia, al contrario, l’assalto hardcoriano della breve “Ödeläggaren” e il mefitico slow-tempo di “You Call It Deviance”. Ci sono poi certi momenti in cui è impossibile resistere alla tentazione di battere il piede sul pavimento per via del ritmo veemente (“The Drowners”), oppure in cui l’ingresso della melodia rende piuttosto intensa la percezione delle emozioni che solo la vecchia scuola sa dare (“The Last Chapter”).

Ma si tratta, in fondo, di gocce nel mare.     

“World Lobotomy” è, alla fine, tanto riuscito nel sound quanto fallimentare nel songwriting. La decisione definitiva sulla valutazione dipende pertanto dalla filosofia musicale dei fan. Per chi, come chi scrive, l’aspetto artistico ha un peso più rilevante rispetto a quello tecnico, non potrà che esserci un’insufficienza, alla fine della fiera.

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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