Recensione: World on Fire
I’m a soldier, in the battle, never-ending…
Il maestro svedese è tornato, pronto ad infiammare il mondo coi suoi poderosi virtuosismi. In pochi se ne sono accorti, tuttavia: echeggiano smorzati e fuggenti gli arpeggi dell’inimitabile Yngwie, come un grido di battaglia lontano, legato ad un passato che con forse non tornerà mai. Forse è stato il grande amplificatore del marketing a restare insospettabilmente assopito: nessuna proclamazione in pompa magna, nessun video ufficiale, nessun comunicato stampa, nessuna photosession. Chi mi ama mi segua, e sono certo che i fan (e probabilmente solo loro) si saranno già accaparrati l’ultima fatica dello svedese, uscita a quattro anni di distanza dal precedente “Spellbound” (2012). L’unica fiammata degna di nota è stata l’inutile querelle sul titolo “World on Fire”, già usato da Slash per il suo disco solista del 2014. Blabbermouth aveva infatti riportato la voce secondo la quale Malmsteen avrebbe deciso di cambiare titolo al nuovo album proprio per via di un post su Facebook del bassista di Slash, Tod Kern, il quale ironizzava sulla svista dello svedese. Figuriamoci se il Malmsteen che conosciamo tutti può abbassarsi a fare una cosa simile: rispedita al mittente la notizia e avanti tutta con “World on Fire”! Il disco è uscito ufficialmente il 1 giugno per l’etichetta nipponica King Records – il Maestro è infatti molto legato al pubblico ed al mercato giapponese, tanto da dedicargli un intero capitolo nella sua recente autobiografia – e per Rising Force Records negli USA/resto del mondo. Alle porte dei cinquantatré anni che compirà il trenta giugno, il panzuto re dello shred raggiunge così il ventesimo disco in carriera.
World is on Fire!
Parola d’ordine: autonomia. Il mondo andrà a fuoco per mano di un istrionico piromane. Come già nel precedente lavoro, Malmsteen canta Malmsteen, suona il basso e le tastiere, si auto-registra, mixa e produce. Signore incontrastato e sovrano, non fosse per il nome di Mark Ellis dietro le pelli, costretto a suonare in maniera meccanica e quadrata come se fosse impossessato da una drum machine, come è abituato dai numerosi e fiammeggianti spettacoli dal vivo nei quali accompagna il Maestro.
Il fuoco indomabile rompe l’incantesimo dell’immediato predecessore, che si era spinto verso atmosfere più blues ed oniriche, irrompendo e divampando nel metal più adrenalinico; la titletrack “World on Fire” sta proprio lì, a ricordarci come si scriveva musica negli intramontabili anni ’80, attorno ad alcuni riff portanti e diretti e con la batteria che non da un attimo di tregua. Col suo vocione nasale il buon vecchio Yngwie non se la caverebbe neppure male al microfono, ma tra autotune, effetti e la solita produzione il brano non lascia il segno che dovrebbe.
Torna il Malmsteen strumentale con due toccata-e-fuga dal minutaggio estremamente ridotto: “Sorcery” e “Abadon”: la prima ruota attorno ad una melodia centrale ed al basso martellante, la seconda più a briglie sciolte con le scale, gli sweep e gli arpeggi su tappeto tastieroso ai quali siamo ormai abituati ai limiti dell’assuefazione. Ci pensa il neoclassicismo di “Top-down. Foot Down” a ritornare sui binari di un brano strutturalmente più chiaro, sempre interamente strumentale, con un refrain melodico davvero molto interessante.
Torna il riff bello chiaro per “Lost in the Machine”, nuovo pezzo cantato estremamente lineare per chi è cresciuto a pane e “You Don’t Remember, I’ll Never Forget”, ma che forse proprio per questo riesce ad imporsi, complice anche la strofa sufficientemente articolata ed il chorus facile facile, fosse cantato da un talento avrebbe davvero un gran tiro. Sempre molto pastoso missaggio del solo, che non svetta come dovuto.
A metà disco compare la ballad: “Largo Ebm” col solito tappeto di tastiera/cori ed arpeggio acustico ci ricorda altri millemila brani del Maestro, pre e post “Angels of Love” (2009). Ci pensa subito l’up-tempo neoclassico “No Rest of the Wicked” a restituire un po’ di carica, per poi passare sul campo di battaglia di “Soldier”: attacco a voce su arpeggio e poi carica fino alla conclusione, con lo svedese che si stacca dal microfono solo per l’assolo a tre quarti del brano.
Suono molto cupo per lo strumentale: “Duf 1120”, nome di una proteina che secondo recenti studi ha a che fare con la complessità del cervello ma anche con l’autismo: Malmsteen legge il Science? “Abadon (Slight Return)” è una fuga inarrestabile, pare che al Maestro si sia tappata la vena e non riesca più a star fermo su una nota per più di una frazione di secondo. Qualcuno lo fermi!
Chiusura per “Nacht Musik”, che purtroppo non ha nulla a che vedere con Mozart e come in “Largo” riparte con l’arpeggio acustico in apertura, passa ad elettrico e ci accompagna a nanna col suo mid-tempo in battere e levare, con un tenue sbadiglio sull’arpeggio finale.
Lost in the Machine
Il fuoco scoppiettante si è ormai spento, così come i riflettori sul palcoscenico. L’ascolto è concluso. Cala il sipario, il deus ex machina è già disceso sul mondo e sta ora bevendo birra nel suo camerino. Della Stratocaster non restano che le ceneri, andata in fiamme come da hendrixiana tradizione. Vengono ora a galla i punti di forza e di debolezza del disco, che si avvale di un ritorno a sonorità più heavy, brani estremamente immediati e racchiusi in un minutaggio composto e con una scaletta abbastanza organica tra shred, heavy ed un’eruzione di scale neoclassiche. La produzione desta qualche perplessità, anche se, al solito, è facile infrangersi in giudizi affrettati con l’ego di chi suona da due settimane la chitarra elettrica in cameretta e si vorrebbe elevare nel giudizio di uno che vive da oltre trent’anni calcando palcoscenici dinanzi a monumentali Marshall-wall: Malmsteen vuole il suo sound, un suono caldo e pastoso, ottantiano, refrattario alla pulizia ed alla nitidezza del mondo contemporaneo.
Il vero nodo cruciale sul quale un recensore è costretto a soffermarsi, purtroppo, è l’ormai acclarata incapacità di sorprendere dello svedese, che va a tradursi nell’estrema prevedibilità del songwriting, autocelebrativo e privo di intuizioni (neppure il blues del predecessore) che da anni sembra orientato esclusivamente ai die-hard fans che difenderebbero il Maestro fino alla morte per autocombustione. Basta provare a riascoltare cosa faceva un giovane ragazzo svedese nel disco eponimo “Steeler” del 1983 e capire come quella fiamma, negli anni, si sia completamente estinta. Malmsteen resta uno spettacolo da vedere dal vivo: si faccia una ricerca su Youtube in direzione “Generation Axe Tour” (con Steve Vai, Zakk Wylde, Nuno Bettencourt e Tosin Abasi) per ricevere la vampata di epicità che questo disco purtroppo non riesce in alcun modo ad accendere.
Non resta che sperare nel fatto che nessun cantante è sopravvissuto a Malmsteen per più di due album: riuscirà il Maestro a sopravvivere a sé stesso? Oppure tornerà ad ampliare la squadra portando al proprio altoforno del nuovo combustibile per forgiare del buon metallo, sia esso un cantante o un produttore? Una cosa è certa: “World on Fire” è un disco scritto per una ristretta cerchia di irriducibili estimatori, e per portare qualche soldo alle casse del nostro collezionista di Rolex e Ferrari preferito, che in tempi di spending review ha ridotto all’osso i costi del personale. Proprio ai die-hard fan rivolgo l’ultimo monito: ci sono tanti giovani talenti in giro che andrebbero valorizzati. Se davvero non volete vivere l’era delle ceneri dello shred, non fermatevi qui.
Luca “Montsteen” Montini