Recensione: World Play
Reduce dal flop del progetto Planet U.S., supergruppo che vedeva coinvolti il batterista Deen Castronovo e gli ex Van Halen Sammy Hagar e Michael Anthony, il leader dei Journey Neal Schon si rituffa nella mischia, insieme a Castronovo, per un altro tentativo che vorrebbe, per dirla in soldoni, riparare gli errori commessi sterzando in maniera decisa verso l’hard rock melodico e tralasciando il pericoloso – per i tempi – post-grunge intrapreso con il precedente lavoro.
Viene dunque reclutato il bassista Marco Mendoza, ammirato ultimamente con i Whitesnake e già con John Sykes, Thin Lizzy, Blue Murder e Ted Nugent, mentre per il singer Schon si affida al leggendario Jeff Scott Soto, di cui ha apprezzato sia le ultime performance live soliste e con la sua main band (i Talisman) sia la carismatica interpretazione dei brani incisi per la colonna sonora del film Rock Star.
In effetti la scelta di Soto rispecchia in pieno la volontà di Schon di scrivere pezzi live-oriented, per cui più che un interprete si rendeva necessario un trascinatore, un animale da palco, e con queste premesse difficilmente si sarebbe potuto trovare di meglio nell’attuale panorama.
La band registrava undici brani in quel di San Francisco, nello studio di Jonathan Cain (Journey), e si preparava ad “imbarcarsi” per un tour promozionale, quando Deen, di comune accordo con la band, decideva di lasciare per concentrarsi solo sui Journey, e veniva rimpiazzato con nient’altri che Virgil Donati, il quale, per una sorta di legittimo orgoglio artistico, riportava la band in studio per registrare nuovamente le tracce di batteria, e l’occasione viene colta al volo per aggiungere al set una manciata di aggiunte.
Schon tuttavia non rinnega il recente passato con i Planet U.S., e da un lato ripropone nella cover art le lettere U ed S del nuovo monicker in maiuscolo, dall’altro riprende composizioni che erano state confezionate per un sequel in preparazione: “Peephole” era stata completata già da tempo, e risulta non a caso il pezzo più debole del disco, sia perché rappresenta la traccia con più reminiscenze alternative del lotto, sia perché è palese di come sia stata “cucita addosso” ad Hagar. Ovvie le influenze Journey, nella composizione, nella produzione ed addirittura nel cantato in “Coming Home”, anche se i SirkUS sono più votati all’hard rock senza troppi fronzoli, e soprattutto vantano una voce calda, quasi blues, come quella di Soto, ad imporsi prepotentemente nella direzione ben simboleggiata da “Alive”, bonus track per il mercato europeo.
In generale, tutti i brani si lasciano apprezzare per l’energia delle soluzioni, che addirittura in qualche frangente diventano rudi e grezze, se di grettezza si può parlare, se si considera il paragone con l’over-producing tipico dei Journey, e forse questo è anche il grande difetto dei Soul SirkUS: essendosi spogliati quasi totalmente delle raffinatezze tipiche dell’AOR, la melodia portante è l’unica arma a disposizione della band per travolgere l’ascoltatore, e purtroppo alla lunga le linee scelte da Schon/Soto sono difficilmente ricordabili, e si risolvono in alcuni – apprezzabilissimi – passaggi standard che affievoliscono la tensione. Non a caso il brano che fa saltare dalla sedia è “My Love, My Friend”, due minuti a cappella in contrappunto tra cori alla Journey e la solista di Jeff.
Fuori luogo, invece, “Abailar To’ Mundo” divagazione tribal-bossanova di Marco Mendoza (anche al microfono), e l’ultimo blues “James Brown”, inspiegabilmente inserito dopo due ghost track.
Il tutto, nella spasmodica attesa del nuovo Journey…
P.S.: “World Play” sarà pubblicato in edizione limitata con un DVD bonus, contenente i video di “New Position” e “Another World”, oltre ad interviste e dietro-le-quinte.
Tracklist:
- World Play
- Highest Ground
- New Position
- Another World
- Soul Goes On
- Alive
- Periled Divide
- Peephole
- Abailar To’ Mundo
- Friends To Lovers
- Praise
- My Sanctuary
- Coming Home
- My Love, My Friend
- Close To The Door
- James Brown