Recensione: Wovenwar

Di Stefano Burini - 13 Agosto 2014 - 0:01
Wovenwar
Band: Wovenwar
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2014
Nazione:
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75

Parlare dei Wovenwar senza citare gli As I Lay Dying è faccenda davvero ardua, visti i destini strettamente intrecciati delle due band. Molto probabilmente, infatti, senza le accuse e la condanna pendente sul capo di Tim Lambesis per via dei tristemente noti fatti di cronaca, i Wovenwar non avrebbero mai visto la luce (anche in virtù delle crescenti popolarità e credibilità acquisite dagli AILD negli ultimi anni a suon di dischi via via più convincenti). Eppure, nonostante la presenza in formazione di ben quattro quinti della “band madre”, le affinità sonore tra i due progetti appaiono molto meno evidenti di quanto in prima battuta potesse sembrare lecito ipotizzare.
 
Il sound dei Wovenwar, pur mantenendo una certa una robustezza di fondo (e non poteva essere altrimenti, potendo contare sull’apporto di una sezione ritmica come quella composta da Jordan Mancino e Josh Gilbert, NdR), risulta essere decisamente più soft di quello degli As I Lay Dying. Le chitarre di Nick Hipa e Phil Sgrosso viaggiano su velocità sostenute e spesso all’unisono, tuttavia, sia in fase di riffing che di assolo, è la melodia a spuntarla sull’aggressività, in maniera assolutamente coerente con lo stile di canto di Shane Blay, già clean vocalist degli Oh, Sleeper e qui chiamato a farsi carico dell’intera parte canora. L’ugola di Blay è, infatti, melodica e vellutata, dotata di una buona estensione e impostata su un registro aderente alle tonalità dell’emo/metalcore più potabile, con pochissime concessioni (“The Mason”, “Profane” e “Archers”) a partiture in growl e scream in realtà piuttosto interessanti ed espressive.
A fronte di tali caratteristiche non ci possono più essere dubbi sull’identità sonora dei Wovenwar: abbastanza lontani dal metalcore più violento ed aggressivo degli AILD, ma (per fortuna, NdR) nemmeno poi troppo aderenti al tipico sound molle e privo di spunti di tante, troppe band odierne. Tra i brani più catchy vale certamente la pena di segnalare il singolo “All Rise” (un po’ ultimi Trivium ma con più melodia e di maggiore qualità), e la doppietta composta da “Moving Up” e “Archers”, con le  vocals dal gusto decisamente pop/alternative rock, un po’ alla maniera di Ian Kenny e dei suoi Birds Of Tokyo.
 
Più particolari (e forse per questo ancor più apprezzabili) la thrashy “Tempest” e la modernissima “Ruined Ends”, addirittura vicine, per atmosfera e ricercatezza delle soluzioni vocali, a quanto proposto dai Soilwork nell’immaginifico “The Living Infinite”; tuttavia, anche procedendo verso il finale, troviamo pezzi interessanti (seppur più canonici) quali “Identity”, “Matter Of Time” e la semiballata “Prophets”.
 
L’unico difetto può essere rintracciato in una lunghezza (oltre cinquanta minuti) eccessiva per il genere proposto  e che tende ad appiattire leggermente un disco altrimenti composto da canzoni agili, orecchiabili e piacevoli da ascoltare ripetutamente. Probabilmente, eliminando i due/tre episodi meno convincenti (personalmente le troppo smielate e prive di mordente “Sight Of Shore” e “Father/Son”, NdR) si sarebbe potuto raggiungere l’obiettivo di compattare  la scaletta, eliminandone contemporaneamente i punti di debolezza.
 
Non si tratta certamente di un album “da defender”, tuttavia per gli amanti del metalcore più melodico e debitore dell’alternative rock, “Wovenwar” potrebbe regalare qualche soddisfazione: nulla di sconvolgente su piano stilistico né contenutistico ma un buon album che non faticherà a trovare il consenso degli appassionati.

Stefano Burini

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