Recensione: Wreath of Thevetat
Gli Alghazanth non sono una novità nel panorama musicale europeo, sebbene siano sempre, in un modo o nell’altro, rimasti nell’ombra di loro connazionali immensamente più famosi come i Children of Bodom, band peraltro più giovane di ben due anni.
Probabilmente la loro storia è più inquietante, il loro immaginario più terrificante: durante un sonno tormentato, il batterista Gorath Moonthorn riceve l’ordine di formare un’entità artistica in grado di soggiogare l’oscurità divoratrice e di tramutarla in illuminazione spirituale. Nascono così gli Alghazanth e tredici anni dopo viene alla luce il quinto full-length.
Wreath of Thevetat raccoglie l’oscura e tormentata tradizione della band finnica e la esprime in modo ancor più teatrale rispetto al passato, rispolverando miti atlantidei e figure oscure, immortali, che si divincolano e soffrono tra le sontuose fila di un black metal sinfonico di grande spessore artistico. L’oscurità balena imperante tra le otto canoniche tracce che scandiscono questo album e, nonostante tutto, il prodotto finale riesce a creare un’armonia tra atmosfere gelide e calore orchestrale tale da dissonare sia con le radici black metal tanto care alla band e sia con quelle pagan-gotiche che occhieggiano invece in maniera sempre più preponderante, di traccia in traccia.
Lo scream arcigno non lascia dubbi sull’intento del cantante, eppure le grandi strutture melodiche articolate dai sapienti arrangiamenti di Ekholm sembrano voler puntare ben più in alto.
Le tastiere infatti, vero punto focale di questo Wreath of Thevetat, tentano di stringere la mano sia ai Dimmu Borgir di primissimo pelo, senza riuscire a coglierne le tetre atmosfere, e sia ai Children of Bodom di ultimo pelo, senza però mostrare la stessa vena dinamica e aggressiva. Il risultato è spesso un accompagnamento un po’ fastidioso, spesso un po’ troppo indipendente e prepotente, a tratti alla Stormlord se vogliamo, e il disco alla lunga sembra un po’ soffrirne nonostante l’eccellente gusto compositivo che accompagna tracce davvero degne di essere ascoltate come l’ottima “Twice-Born“, vera stella dell’album, o l’oscura “The Phosphorescent“, promossa a singolo qualche mese orsono.
Nonostante si possa discutere per ore su come l’intera composizione non brilli per originalità e su come lasci un retrogusto di già sentito, non si può negare che questo sia un album composto da ottimi artigiani del symphonic black, di gente che sa esattamente ciò che fa e che sa come tenere incollato l’ascoltatore grazie a stratagemmi musicali come lunghi assoli di pianoforte, improvvise accelerazioni al fulmicotone e brevi cori di gusto squisitamente Pagan.
La produzione eccellente, grazie anche allo zampino di una vecchia conoscenza come i Tico Tico Studios, e l’ottimo artwork coronano un album dagli ottimi spunti creativi, forse un po’ troppo pretenzioso, che potrebbe rivelarsi un’ottima sopresa per i fan dei genere e un’ottima scusa per chi intende iniziare ad ascoltare questo genere che dalla Finlandia continua a trarre un flusso costante di linfa vitale.
Daniele “Fenrir” Balestrieri.
TRACKLIST:
01. Moving Mountains
02. The Kings To Come
03. The Phosphorescent
04. On Blackening Soil
05. Rain of Stars
06. Twice-Born
07. Future Made Flesh
08. As Nothing Consumes Everything