Recensione: Wyatt Earp
I Wyatt Earp sono una band di Verona che si è formata nel 2013. Come tante altre band, ha iniziato il proprio percorso di crescita artistica suonando cover dei propri idoli: dai Deep Purple agli Uriah Heep, dai Kansas ai Grand Funk Railroad.
Dopo alcuni cambi ed avvicendamenti nella formazione, la line-up, costituita da Leonardo Baltieri alla voce, Matteo “Fina” Finato alla chitarra, Fabio “Led” Pasquali al basso, Silvio “Hammer” Bissa alla batteria e Flavio “J” Martini alle tastiere, si è tuffata nello studio di registrazione (l’Industrial Studio di Marco Ciscato, chitarrista dei Methodica) e ne è uscita con le registrazioni del proprio debut album. Per la masterizzazione, la band si è poi rivolta in Germania a Patrick Engel dei Temple Of Disharmony.
Se il nome “western” della band potrebbe far pensare a un gruppo hard con influenze country o southern, l’omonimo esordio dei Wyatt Earp fa riferimento invece, in coerenza con la scelta dei brani eseguiti live agli esordi, ad un hard rock di stampo soprattutto britannico, ma non privo di spunti a stelle e strisce, e con qualche spruzzata di spunti prog, sviluppato attraverso tracce spesso lunghe ed articolate.
Una certa articolata complessità, infatti , è presente in canzoni come Gran Torino (un hard rock settantiano aperto da un mix energico di schitarrate e tastiere vintage, che non lesina passaggi teatrali nella voce e raffinatamente prog nei tocchi dei tasti d’avorio, e si conclude con un gran finale di chitarra), Back From Afterworld (brano travolgente e di matrice “Deep Purple”, contrassegnato dalla grinta della voce e dall’impeto di basso e batteria, ma che in finale si apre pure a tastiere devote al progressive).
Il suono però, resta prevalentemente sul sentiero dell’hard rock, come dimostrano Live On (tra le canzoni migliori del lotto) la quale, a partire dall’urlo iniziale e dalla chitarra che “riffeggia” implacabile, ci porta in pieni anni settanta del secolo scorso, sorretti in questo tuffo nel passato da un basso ed una batteria che vanno come un treno, e dal travolgente “botta e risposta” di ascia e tasti d’avorio. Sullo stesso sentiero troviamo Dead End Road, nella quale i riff della sei-corde , le tastiere vintage e la sempre implacabile sezione ritmica disegnano un suono “vecchio stile”, memore di maestri come Deep Purple e Uriah Heep.
Ashes, invece, inizia con voce e tocchi raffinati e misteriosi di tastiere (un po’ dalle parti di Child in Time, tanto per intenderci), per poi diventare un vorticoso hard’n’roll con le tastiere ancora una volta sugli scudi. With Hindsight, ancora, ripropone alternanza tra atmosfere più rarefatte e passaggi più hard (ma non troppo veloce) e qualche elemento prog ( che ci fa tornate alla mente Gentle Giant e Kansas), compreso un lungo e pregevolissimi assolo di chitarra.
In conclusione, “Wyatt Earp” è un promettente esordio, che giunge in un momento in cui proprio i più volte citati “grandi vecchi” Uriah Heep e Deep Purple sorprendono ancora producendo dischi nuovi di rilievo e qualità, e i gruppi nuovi di cui si parla sono gente come Greta Van Fleet, Inglorious e Rival Sons, che proprio all’hard rock dei Seventies si rifanno espressamente. In questo scenario, è più che appropriato sostenere ed apprezzare anche in Italia una band nostrana di sano rock vecchio ma nuovo che ha la grinta, la passione, la perizia ed il ruggente calore esecutivo di questi Wyatt Earp.
Francesco Maraglino