Recensione: Wyrd bið ful aræd – The History of the Saxons

Di Antonio Ferrari - 7 Maggio 2016 - 8:00
Wyrd bið ful aræd – The History of the Saxons
Band: Rebellion
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2015
Nazione:
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67

Mi avevano stupito al loro esordio “Shakespeare’s Macbeth – a Tragedy in Steel” nel 2002, quando nacquero da una costola dei Grave Digger, e l’anno successivo “Born a Rebel”, pur nella sua semplicità, mi aveva esaltato diventando uno dei miei album preferiti per quell’anno. Poi la loro trilogia sulla storia dei vichinghi, sebbene contenesse vere e proprie perle, mi aveva un pò annoiato e di conseguenza negli ultimi anni avevo seguito con molto meno interesse i Rebellion, soprattutto dopo l’abbandono di quella macchina sforna riff che risponde al nome di Uwe Lulis. Dopo il mezzo passo falso di quattro anni fa (“Arminius – Furor Teutonicus”) i Nostri tornano oggi con una nuova saga a sfondo storico e ci parlano dei Sassoni.

I defenders più intransigenti stiano tranquilli, gli anni sembra non siano passati ed i Rebellion rimangono fedeli alla causa in tutto e per tutto, sfornando un album pieno di riff granitici, ritmi veloci, ma senza esagerare, e con la solita efficace prestazione alla voce di Michael Seifert, per chi non lo conoscesse, uno che prima di cantare fa i gargarismi con i chiodi!

L’opener “Irminsul” ne è un esempio lampante, con le sue melodie fiere cantate con potenza ed i suoi ritmi serrati. In “God of Mercy”, aperta da una parte recitata evitabile, la sensazione di deja vù si fa forte, perchè il mid tempo in questione potrebbe tranquillamente essere un estratto dalla trilogia vichinga di qualche anno fa. Bellissimo invece il lavoro delle asce in “Sahsnotas”, up tempo graffiante che sfocia, quasi a sorpresa, in un refrain più lento ma molto d’impatto. Così come bellissime risultano essere anche “Hengist” (non a caso scelta per la realizzazione di un video), la quadrata “Hail Donar e Blood Court”, in cui strofa e bridge creano la suspance necessaria per un chorus assassino da urlare a tutta voce sotto un palco. Pochi, e non ci si poteva aspettare altro, gli esperimenti. Tra i quali senza dubbio spiccano le chitarre al limite del Thrash di “The Killing Goes On” e “The Fall of Irminsul”; in quest’ultima fanno addirittura capolino delle voci effettate. A chiudere il disco ci pensa la title track con un songwriting leggermente più complesso rispetto a quanto sentito fino a questo momento, ma senza che si perda nemmeno una goccia in impatto e potenza.

Mi si chiederà: perchè allora un voto così “basso”? La risposta non è semplice, ma proverò a spiegarmi: amo questo tipo di sonorità e di certo non sono un sostenitore dell’originalità e dell’evoluzione a tutti i costi, ma a tutto c’è un limite. Gli AC/DC hanno fatto lo stesso disco per anni, ma in ognuno di essi c’erano almeno un paio di pezzi che hanno fatto la storia, cosa che, con tutto il rispetto non si può dire dei Rebellion. Inoltre, visto il genere proposto, devo dire che li vedevo molto più a loro agio ai tempi del loro secondo disco, semplici e diretti, senza la mania del concept album storico, ambito nel quale non hanno mai avuto nè la maestria dei vecchi Running Wild nè le capacità compositive di Blind Guardian o Virgin Steele. Trovo infine abbastanza controproducente il loro essere simili in tutto e per tutto ai Grave Digger visto che da un confronto diretto non potrebbero che uscirne battuti, a meno che la loro intenzione non sia quella di essere considerati per sempre i fratellini minori dei Becchini. Lo stesso Seifert ha dimostrato in passato, ed in questo album, di avere una voce bellissima anche quando non si ostina ad imitare il buon vecchio Chris e canzoni come “Hengist” sono qui a dimostrarlo!

A questo punto, per dare un senso a questa recensione, apparentemente contraddittoria, vi consiglio di leggere il voto finale come una sufficienza netta, ma risicata, se non siete amanti di un certo tipo di Heavy Metal crucco (Grave Digger, Paragon, X-wild…); in caso contrario interpretatelo tranquillamente come un sette abbondante!
 

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