Recensione: Xeno Kaos

Di Andrea Poletti - 29 Dicembre 2015 - 17:29
Xeno Kaos
Band: Otargos
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2015
Nazione:
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75

 

L’Otargos è un animale dalle buffe fattezze che si nutre principalmente di ghepardi morti, bacche all’n’duja e semi di girasole. Vive nelle vaste paludi della tundra sud-occidentale ed ha un vago accento altoatesino per non sfigurare nella folta schiera dei bipedi acquitrini. L’Otargos ha una rara malformazione alle branchie sudoccipitali che gli consentono di deglutire cerbiatti mentre suona il triangolo ribassato in assetto da guerra. Grazie per la cortese attenzione, arrivederci e a presto.

 

Spero abbiate apprezzato il nostro telegiornale-animale, ora è giunto il momento di fare sul serio e parlare degli Otargos, band francese che, se dovessimo chiudere in quattro e quattr’otto la recensione, potrebbe essere descritta con tale stratagemma: spaccano gli zebedei a tutto quello che incontrano. Un tir in faccia e salute a tutti, digestione violenta applicata ad un necro-malessere del mondo. Ancora più in breve: cosa accadrebbe sei al lato più integralista e di pura matrice black dei Behemoth aggiungessimo una lieve dose di cyber-elettronica? Nascerebbero gli Otargos, ne più ne meno.

Senza farci prendere da vacui entusiasmi possiamo dire come al sesto album i nostri riescano alla perfezione trovare la quadratura del cerchio. Quel disco che pone il punto esclamativo su una carriera che li vede sul mercato da oramai tredici anni; senza grandi tour, proclami della prima ora o qualsivoglia manifesto di innata tamarraggine sono riusciti nel tempo a consolidarsi tra le realtà underground, diventando artefici di un sound atipico ed annichilente. Se con i precedenti album la componente black era l’80% della proposta, è la matrice death, che aumentata in dosi esponenziali, rende massiccio e corposo l’impatto proposto. Ascoltato quest’album una domanda nasce silenziosa dentro una persona qualunque che non vive nel metal superficiale: spesso e volentieri non è semplicemente il nome sulla copertina che porta a rendere questo o quel disco di serie B? Storia oramai arcinota a molti che il brand non è sinonimo di qualità; centinaia e centinaia di gruppi che vivono nel sottobosco ombroso della scena senza ricevere i consensi dovuti (magari tu che leggi fai parte di uno di questi gruppi) avrebbero molto da raccontare. Dunque dove può un comune mortale come il sottoscritto sovvertire l’infausta sorte che porrebbe gli Otargos lontano dalle critiche del mondo, sconfinati in un menefreghismo take away? Otto canzoni, trentatrè minuti di pura incoscienza ed un tasto play che viene premuto nuovamente alla fine dell’ascolto. Già dalla iniziale Dominatrix si può comprendere come le coordinate della messa in piega formato violenza non portano nuvole di sorrisi e carezze, un sfuriata come poche che pettina più di una folata di bora triestina. Anche se i tempi sono alquanto pari è la dose dei Behemoth periodo Satanica che emerge prepotente, dove la terremotante LAM si aggrappa ad un suono elettronico e cyber-compatto per dare vita a suoni contemporanei e menefreghisti. Ovviamente non ci sono solo i polacchi a fare da ispirazione a questa belva inferocita, possiamo trovare echi degli indimenticati Scarve che si contaminano con le sfuriate più oltranziste dei Dødheimsgard del periodo Monumental Possession, l’underground francese dei Deathspell Omega che si incastra nei meandri dei Thorns Norvegesi. Parallelismi alquanto azzardati ad un primo approccio ma che non sono sparati a caso, per fortuna. La dote maggiore di questa band è di riuscire in pochissimo tempo a far collidere realtà distanti tra loro fornendo un meltin’ pot di spessore consistente. Non si vive mai solamente di espedienti presi da altri, così sarebbe troppo facile e buonanotte ai sognatori; la violenza trasmessa all’interno di Xeno Chaos è vera, spontanea e sentita nel profondo. La rabbia latente che nasce nelle viscere per sfogarsi in urla strazianti e musiche da rivolta dei sobborghi clandestini è di immensa pesantezza. Non c’è solo violenza qui dentro sia chiaro, nella parte centrale del full length attraverso tracce come Dark Mechanicus, Phase Shifter e Realm of the Dead è la matrice più groove che prende il sopravvento donando giustizia alle doti dei nostri, capaci per l’ennesima volta lungo la tracklist di sovvertire quello che fino a pochi minuti prima pareva impensabile. La forza degli Otargos oggi è proprio nel farti male ma con eleganza ed intelligenza. Una produzione leggermente meno asettica avrebbe probabilmente favorito una dose maggiore di empatia, ma se deve essere cyber bisogna farlo fatto bene. Non molti i tecnicismi presenti qui dentro, in fin dei conti non serve sempre proporre 200 riff al minuto per lasciare a bocca aperta oggigiorno, anzi.

 

Salutiamoci, basta, non ho più voglia di stuzzicare la vostra attenzione. Preferisco che con tutta la calma del caso possiate concedere un ascolto ad un ottimo album che non mancherà di stupirvi per intensità ed intelligenza, senza lasciare indietro raffinatezze e dettagli nascosti lungo i molteplici ascolti. Qui li promuoviamo a pieni voti, per confermare una volta in più, se ce ne fosse bisogno, quanto il brand non è sinonimo di qualità nella maggior parte dei casi; nel loro piccolo gli Otargos sono il manifesto dell’underground per dichiarare guerra ai potenti.

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