Recensione: Xenon
La commistione fra death metal e musica elettronica ha avuto inizio, in termini di rilevanza qualitativamente significativa, almeno quindici anni fa con l’uscita dell’incredibile – ancora oggi – “Demanufacture” (1995) dei Fear Factory. Da allora si sono succedute parecchie band, sulla sua scia, che hanno tentato di mutuarne l’innovativo stile, denominabile ‘cyber death metal’. Band come Treat Signal, Scar Symmetry, Arkaea. Con l’ampliamento dell’orizzonte abbracciato dall’elettronica, sono nati parallelamente a quelli sopra menzionati alcuni gruppi che hanno via via contaminato sempre di più la loro proposta metal di base con intarsi addirittura techno/trance. Fra i più noti, Blood Stain Child, Sybreed, Neurotech, The Kovenant, Vortech. Fra coloro, infine, che hanno miscelato il death metal alla musica da filmografia fantascientifica – e non solo – , ci sono gli statunitensi Mechina.
Mechina che, nati nel 2004 nell’Illinois, hanno alle spalle una discografia di tutto rispetto, rigorosamente autoprodotta. Due demo (“Embrace The Breed”, 2004; “Demo”, 2004), un EP (“Tyrannical Resurrection”, 2007), tre singoli (“Andromeda”, 2011; “Cepheus”, 2013; “Phedra”, 2013) e quattro full-length: “The Assembly Of Tyrants” (2005), “Conqueror” (2011), “Empyrean” (2013) più l’ultimogenito, “Xenon”, uscito simbolicamente il 01/01/2014.
Prendendo quindi come esempio i californiani di Burton C. Bell, i Mechina, lasciando inalterata quell’asettica ripetitività ritmica del sound che è l’elemento fondante per discutere di ‘cyber’, rinunciano a certa melodia accattivante per bombardare, letteralmente, le song di orchestrazioni sinfoniche. Un inserimento che non può passare certo inosservato e che, probabilmente, può essere soggetto a critiche sia negative sia positive; e comunque sia influenzate direttamente dai gusti personali di chi ascolta. Le poderose atmosfere generate dalla musica sinfonica, accompagnate dai tempestosi blast-beats di David Gavin, tuttavia, scatenano apocalittiche visioni futuristiche che assai raramente sono state dipinte con tale intensità. Un carattere sostanzialmente unico, che dipinge lo stile dei Mechina in modo assolutamente singolare e deciso in tutto ciò, tale da far pensare, per esso, una denominazione a parte (‘symphonic cyber death metal’?, ‘orchestral cyber death metal’?, …), un’identificazione dal sapore primigenio per una stirpe a venire. A questo si deve aggiungere, inoltre, la spettacolare, perversa unione fra gli aulici cori femminili che a volte sferzano l’aria e il bestiale growling di David Holch che, invece, corre rasoterra come l’orrore strisciante. Se poi ci si aspetta che i contributi di cui s’è appena scritto minino la potenza e l’aggressività di un sound travolgente nella sua super-abbondanza, l’errore è immediato. Il drumming di Gavin, difatti, è semplicemente devastante e spezzerebbe la schiena a chiunque, fra cambi di tempo operati spesso e volentieri ad alta velocità, rallentamenti dalla pesantezza schiacciante, e insistita applicazione di schemi ossessivi, iterativi. Come del resto non pare aver pietà di alcuno il guitarwork di Joe Tiberi, la cui chitarra è un’affilata motosega i cui riff tranciano anche le ossa più dure grazie, anche, al cupo e ininterrotto rimbombo prodotto dal basso di Steve Amarantos.
Ma la bravura dei Mechina non risiede solo nel fatto di aver individuato e messo a punto una tipologia musicale tanto innovativa quanto perfettamente delineata in ogni particolare; giacché costante, continua e consistente lungo tutta la durata della loro opera. Il lavoro stesso, difatti, propone dieci brani che seguono fedelmente gli incroci della matrice sonora fondamentale, sviluppandosi tuttavia ciascuno in una sua direzione, vivendo cioè di vita propria benché saldamente ancorati alla matrice medesima. “Zoticus”, per esempio, mostra la capacità dei Nostri di creare melodie stupefacenti, mai stucchevoli o ‘troppo’ orecchiabili, nelle quali Holch si eleva quale ottimo interprete di clean vocals peraltro capaci di proiettare l’immaginazione verso mirabolanti viaggi stellari. Si tratta di un esempio, non a caso, poiché tutte le canzoni del platter sono di grande livello compositivo; talentuose nel rendere brevi i cinquanta minuti di durata del disco stesso e di invogliare a cominciare da capo. Sospese in un equilibrio encomiabile fra immeditezza e longevità. Fra di esse emerge senz’altro “Thales”, capolavoro assoluto cui assegnare il compito di rappresentare al meglio “Xenon” e i Mechina. Gigantesche ondate alimentate dai furibondi blast-beats spingono allo spasmo la vibrazione della strumentazione ad arco, cori imperiosi si accoppiano ai più bestiali ruggiti, devastanti riff abbassano i toni per provocare la massima forza dirompente. Il ritmo è folle, vertiginoso. Poi si calma, si acquieta, si addolcisce per poi accelerare nuovamente e definitivamente oltre gli orizzonti dell’Universo conosciuto. Più veloce della luce, più esplosivo delle supernovæ.
“Xenon” è l’ultima frontiera del death metal. Oltre, a parte i Mechina, non c’è ancora nessuno.
Daniele “dani66” D’Adamo
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