Recensione: XIII – Devil’s Dozen

Di Francesco Maraglino - 23 Agosto 2015 - 7:00
XIII – Devil’s Dozen
Band: Royal Hunt
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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79

Al sorgere degli anni Novanta del ventesimo secolo, la Danimarca diede i natali ai Royal Hunt, formazione capeggiata dal keyboard wizard Andre Andersen.
Power? Prog? Pomp? Non è sempre agevole incasellare a perfezione in un inequivocabile sottogenere del metal il progetto artistico della band, che, all’inizio della propria carriera, ha fatto risolutamente breccia nel cuore dei più raffinati cultori di certo rock enfatico e classicheggiante (in particolare nella terra del Sol Levante), con pietre miliari di un metal tra power e prog come Moving Target e Paradox. Tra gli asset più rilevanti della band danese, vi era la voce, duttile e possente, del singer D.C. Cooper. Il quale, però, ad un certo punto ha lasciato la staffetta ed il microfono in mano a John West e Mark Boals, per poi rientrare più recentemente  all’ovile, realizzando da figliol prodigo  prima un tour e, poi, ancora,  due nuovi album.
Con ancora D.C. Cooper in qualità di vocalist, Andre Andersen e soci tornano in pista per un nuovo full-length, il numero tredici della loro discografia in studio, che s’intitola Devil’s Dozen e che, lo diciamo subito,  non offre novità di rilievo rispetto alla loro proposta creativa, ma si inserisce coerentemente nel percorso stilistico della band, fornendo in maniere esemplare esattamente ciò che dai Royal Hunt  ci si aspetta.

So Right So Wrong, tanto per cominciare, apre, infatti, il platter con riff solenni di tastiere raddoppiati dalle chitarre, coinvolgendo appieno l’ascoltatore con un incedere incalzante e marziale, e con il suo chorus acchiappante ed evocativo.
May You Never (Walk Alone), se da principio disorienta chi ascolta con un delicato pianoforte in fase d’introduzione, seguito dalla voce, esplode poi in fuochi d’artificio di suoni power e progressive. Basso e batteria trascinano la canzone tra epiche melodie, mentre ascia e tasti d’avorio s’inseguono in assoli classicheggianti.
Anche A Tear In The Rain è una traccia veloce, piacevolmente lineare ed avvincente nel suo galvanizzante sviluppo symphonic prog, e  pure Way Too Late è un infervorante pomp rock corale e ingemmato da siderali e cristalline armonie.
Heart On A Platter mostra all’inizio un inconsueto pianoforte che sconfina in umori jazz facendosi largo in mezzo agli spunti di una sezione ritmica determinata, quindi s’apre in un brano in cui sono incastonati melodie AOR ben delineate dalla voce ed echi pomp nelle evoluzioni della sei-corde  e delle tastiere. Pure How Do You Know, presentata come bonus track, è una canzone AOR assai centrata, dinamica, nervosa e parecchio groovy.
Si diversificano dal resto del lotto Riches To Rags, dagli umori popolari, folk e classici in un contesto che resta comunque catchy e rock, e  Until The Day, solenne e densa traccia slow sovraccarica dall’enfasi del canto e degli strumenti, e incorniciata da un assolo di Jonas Larsen assai fluido.
 

Ancora una volta, con Devil’s Dozen, i Royal Hunt perpetuano dunque la propria arte grazie alla grandeur del suono, alla tecnica sopraffina, alla competenza classica, alla capacità di esprimere melodie gradevoli e mai banali e valorizzate da una voce in grado di inerpicarsi lungo tutte le vette ed i meandri delle composizioni.
Certo, l’assenza di innovazioni rispetto al passato, e la sostanziale riproposizione di un stile ormai consolidato, può rendere l’ascolto di questo full-length meno appassionante rispetto a certe opere del passato del gruppo. Di contro, il numero limitato di tracce (appena otto) assicura l’assenza di quei fastidiosi filler che spesso ridimensionano la quotazione complessiva di tanti album, consentendo ai fans di godere senza momenti di stanchezza di questa sostanziale conferma della classe della band danese.

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