Recensione: Xinteng
Dopo aver dato alla luce il brillante debutto intitolato Haiyang, il trio taiwanese dei Laang (freddo) torna in studio e sigilla un disco che rappresenta un ambizioso tuffo nel proprio sound, ormai agevolmente definibile come depressive post black metal. Per farla breve, perlomeno per quanto si percepisce sin dai primi minuti di ascolto di questo Xinteng, si tratta di un trait d’union tra un black metal melodico e spesso veloce con aperture oscure che enfatizzano il valore atmosferico che permea nelle 8 tracce del disco in questione. La voce di Yang Haitao spicca sopra un disegno strumentalmente ricco e abbastanza stratificato da non finire per essere soltanto una delle tantissime offerte di metal estremo, aspetto cruciale soprattutto avendo a che fare con una band esponente di un paese non tipicamente associato al black metal.
Dopo l’ottima opener Cǎndàn, i ranghi si serrano e Dòngshāng accosta malinconia e violenza offrendo all’ascoltatore una ventata di aria fresca, anche per via di schemi ritmici mai scontati e che si concedono aperture melodiche, facendo respirare il pezzo, pur sempre sorretto da un cupo alone che ben mantiene il filo logico con il resto dell’album. A tenere unito il tutto, ci si sente come trasportati dentro un umido incubo, in cui bisogna attraversare furtivamente un vicolo buio e pieno di insidie. Dai toni quasi reminiscenti di una colonna sonora orrorifica la maestosa Wǒ de Piāofú Shītǐ, che con i suoi 8 minuti raffigura la capacità di non cedere agli schemi più tipici, dimostrando come i Laang riescano a toccare le giuste corde anche sulla lunga distanza, senza risultare noiosi, tantomeno prevedibili, neppure su episodi più canonici come nel caso di Zài Hēi’àn Zhōng, abile nel spezzare e rendere fluido l’ascolto, una volta raggiunto il giro di boa.
Il difficile compito di continuare a tenere alta la soglia di attenzione spetta alla successiva Høst, che ad essere sinceri risente dell’impegno profuso sino a questo momento. Nonostante tutto, la sua indole melodica contribuisce a far scorrere veloci altri cinque minuti, rendendo però indispensabile l’introduzione di qualche variazione più consistente rispetto a quanto apprezzato fin qui. I Laang sembrano muovere i passi nel modo migliore e con Hēiyàoshí mettono insieme un brano veloce, una sfuriata che a suon di blast beat ricalca i binari più convenzionali del black metal, scorrendo via che è un piacere e saziando l’appetito distruttivo dei più tradizionalisti, il tutto valorizzando il pezzo con interessanti input corali. Si tratta senza dubbio del brano più diretto e assimilabile dell’intero lavoro, riuscendo a introdurre nel modo migliore la coppia conclusiva composta da Cháoxī e Yǒnghéng De Yǔ, la prima una notevole suite dai mille volti, la seconda che alza ulteriormente il tiro e ne ricalca – in parte – lo schema, arrivando a sfiorare i 9 minuti e gettando nella mischia aspetti non ancora del tutto approfonditi nel resto dell’album. Altro brano da non perdere di vista.
In definitiva Xinteng non è una perla rara, in primis perché ha qualche angolo ancora da smussare, non tanto in termini compositivi, quanto più per una resa sonora finale che non gode appieno di una produzione tale da mettere in risalto quell’atmosfera che il trio prova in tutti i modi a trasporre su disco. Resta pur sempre un lavoro ben suonato, vario e che unisce un sound malinconico alla brutalità di un metal estremo dalla forte connotazione atmosferica. 1 punto in più per l’insolita provenienza di una band che si dimostra a proprio agio in mezzo ad un calderone pur sempre quasi del tutto monopolizzato da realtà europee.