Recensione: Year Of The Tiger
“Non lamentarti del passato morto, non preoccuparti del futuro, i saggi pensano al presente” – sono le parole di un celebre mantra tibetano che mira alla massima concentrazione dell’adesso, ovvero il risultato di ciò che abbiamo fatto ieri e la base per dove saremo un domani.
Ne sono passati di anni da quando Myles Kennedy ha presentato la propria voce al grande pubblico, con il debutto degli Alter Bridge (“One Day Remains” del 2004), album però quasi interamente scritto dal chitarrista Mark Tremonti. Da quel momento è stata una cascata di meritati successi per la band capitanata dall’ex Creed e dall’incredibilmente espressivo singer, capace di rendere le proprie canzoni, dei veri strumenti in grado di toccare cuore ed animo nel profondo. Ma come per ogni artista che si rispetti, dall’animo tormentato o meno – e poi capirete il perché – quel che può davvero far uscire il proprio io più profondo lo si trova mettendosi seduti in silenzio, al buio e lontano dai riflettori. Bisogna farlo per sistemare i conti col proprio passato, a quel lontano 1974, quando il padre di Myles scomparve prematuramente.
L’album è un faccia a faccia, molto più intimo di quanto siamo abituati ad ascoltare con gli Alter Bridge (o addirittura con Slash, per cui Kennedy è singer). Immaginate lui, seduto nella penombra che imbraccia una chitarra e da libero sfogo a quel che custodisce dentro sé, perché è giunto il momento di farlo e Year Of The Tiger arriva esattamente nel momento giusto e rappresenta il percorso che il singer ha dovuto affrontare nel proprio passato, quando ancora bambino ha dovuto tener duro contro un mondo ancora estraneo e tutto da scoprire. Ci sono episodi bui che si alternano ad altri che trasudano voglia di lottare, la stessa forza che quel ragazzino ha tirato fuori per superare un ostacolo enorme, una maledetta fonte di ispirazione per un disco che è un tributo alla vita ed esorcizza la morte con la forza ed il vigore del felino più enigmatico e bello del regno animale, una tigre.
A dire il vero, Myles aveva già scritto interamente un disco inedito tra il 2009 e il 2016, ma oggi, qui, adesso, non rappresentava quel che è ed il modo in cui vuole superare definitivamente quell’anno che nonostante la drammaticità e l’oscurità di quel che portò con sé, scatenò quella serie di eventi che lo hanno reso uno dei cantanti più espressivi ed emozionanti della scena mondiale attuale. Per il calendario cinese, il 1974 rappresenta proprio l’anno della tigre: un segno, una crudele sfida lanciata dal destino e messa su disco col cuore in mano dall’uomo che ha finalmente esorcizzato i propri demoni interiori.
Introspettivo, profondo, molto personale, ma quanto riesce davvero a trasmetterci l’esordio solista di Myles Kennedy? Sicuramente sarà apprezzato a dovere dai suoi fan più sfegatati, da quelli che non appena colgono il suo talentuoso tono, non riescono a premere altro tasto all’infuori del “VOL +”, mentre gli altri potrebbero essere spiazzati da quella voglia di folk che persiste dall’inizio alla fine e trova nella opener, nonché title-track Year Of The Tiger sia il preambolo che il riepilogo ideale delle successive canzoni. C’è spazio per qualche apertura elettrica, ma non ho personalmente trovato melodie propriamente addictive. Di certo c’è che si lascia ascoltare, senza bussare alla nostra porta con prepotenza ed al tempo stesso andandosene via troppo facilmente, anche durante gli ascolti successivi.
Mi sarei aspettato qualcosa di più, in termini di songwriting e soprattutto in termini di pelle d’oca, conoscendo bene il ragazzo in questione, le sue indubbie capacità ed il valore di questo album.
Brani chiave: Year Of The Tiger – The Great Beyond – Love Can Only Heal
Alessandro Marrone