Recensione: Yearing

Di Matteo Bovio - 29 Luglio 2004 - 0:00
Yearing
Band: Vox Interium
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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75

Qualcuno dice Polonia e subito ci vengono in mente i soliti nomi: Vader, Yattering, Behemoth, Graveland… Ma ‘sta volta si cambia registro: i venti dell’est non ci portano esattamente freschezza, ma sicuramente questi Vox Interium sono una realtà che sin’oggi era passata nel silenzio, almeno fuori patria. Un silenzio destinato a durare? Probabile, visto che questo cd non è esattamente un prodotto mainstream; d’altra parte quel che ho in mano è l’insieme di 10 tracce che potrebbero incuriosire i più fedeli alla causa del Death Metal.

Occorre ovviamente specificare. Contaminazioni Thrash sono evidenti da subito, ma nulla a che vedere con la scuola svedese; la melodia è infatti un elemento quasi assente, sostituita da un riffing piuttosto grezzo ma con un ottimo mordente e, spesso, molto catchy. Strutture comunque sempre comprensibili e sensate, arrangiate su ritmiche coinvolgenti. Il mirino è puntato sui fan del Death Metal di vecchio stampo, in particolar modo verso coloro che alla velocità esasperata preferiscono tempi ‘moderati’ e sano putridume.

Azzeccato il suono, per lo meno visto il contesto: alcuni passaggi ricordano parecchio il sound di Inferior Devoties degli Hypocrisy (so che fare il confronto con un mini di 10 anni fa non è la cosa più indicata, ma mi sono ritrovato così tante volte a pensare a questo paragone nell’ascolto che non potevo evitare di indicarlo). Pochissimi (se non assenti) i ritocchi in studio, tant’è che gli stop’n’go, pur essendo ben fatti, non hanno mai quella (spesso fintissima) precisione chirurgica tipica di quasi tutti i lavori contemporanei. Insomma, una scelta che contribuisce ulteriormente a riesumare atmosfere old style.

Tra i pezzi da indicare mi soffermerei innanzitutto su “Very Strange Dream“: ottimi gli assoli e gli arrangiamenti di chitarra, che introducono e poi sviluppano un feeling spesso ricorrente in Yearing, una sensazione di disagio ricreata con pochi passaggi essenziali. Ben fatta anche “Reality When You Die“, cover dei Gorefest. E infine ricordo “The Crime“, una delle prove più evidenti della passione di questo gruppo per le sonorità tipiche di inizio anni ’90, con anche un paio di passaggi che sembrano uscire dall’esordio dei Deceased

Il lavoro in alcuni punti risente di una certa staticità, e la produzione non aiuterà certo nell’ascolto chi è abituato a suoni potenti e ricercati. Ma i pezzi, una volta entrati in testa, regalano grandi soddisfazioni (soprattutto se ascoltati a un certo volume…). Un album senza troppe pretese, suonato con grandissima passione, in maniera istintiva e diretta. Forse sono solo mie idee, ma qualche punticino in più se lo è meritato proprio per questa ragione. Chi poi sbava ancora per questo tipo di approccio (come me) abbia la pazienza di aggiungerne qualcun altro per conto proprio…
Matteo Bovio

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