Recensione: Yearning: Promethean Fates Sealed
I Fleshvessel sono una band di Chicago (Illinois) fondata nel 2019; già dopo un anno esce il loro primo LP, Bile of man reborn che, al netto della durata estenuante dell’unica traccia ivi contenuta, aveva palesato le qualità di questa nuova band statunitense, chiamata a confermare quanto di buono mostrato fino ad ora.
La line up comprende una formazione basica di quattro membri, ognuno dei quali, però, suona diversi strumenti, alcuni molto particolari come l’ocarina, l’ottavino e la viola; inoltre, in questo percorso i Fleshvessel si sono fatti supportare da altri musicisti, che hanno arricchito le loro complesse sonorità.
La cover è opera di Carlos Agraz (Art of Asty) ed è molto indicativa, poiché raffigura, in un panorama arido che ricorda il Grand Canyon in una versione più apocalittica, delle mani che cercano di aggrapparsi ai fili del destino, elemento ricorrente di questo disco. Ed è così, perché Yearning: promethean fates sealed rielabora il mito di Prometeo, il Titano che osò sfidare gli Dèi rubando loro il fuoco per darlo agli uomini: come pena del gesto sedizioso, fu fatto incatenare da Zeus sulla vetta più alta e soggetta ad intemperie, mentre l’aquila Aithon, inviata dal Re degli Dèi, ogni giorno squarciava il titano e ne mangiava il fegato che sarebbe poi ricresciuto nella notte. I Fleshvessel spostano il conflitto da un piano esteriore ad una introspettiva: l’uomo lotta contro sé stesso per migliorare, perché l’evoluzione dell’essere umano è frutto di una crescita interiore, e non dell’ausilio di un elemento esterno.
Il disco è composto da sette brani, ognuno dei quali è intervallato da un piacevole intermezzo musicale che occupa le caselle delle tracce pari e che hanno il compito di “ammorbidire” l’ascolto, poiché, ognuno delle canzoni che lo compongono, ha una durata piuttosto consistente. Winter came early è una opener piuttosto lunga, che dolcemente, tra passaggi acustici ed elettrici, conduce l’ascoltatore nel cuore oscuro e dannatamente black della stessa: ed è il degno antesignano dello spirito del gruppo. Promethean – vignette I è un grazioso quanto sublime ponte che ci conduce al terzo pezzo, A Stain, il più oscuro, il più pesante: furioso nella sua prima parte, melodrammaticamente prog nel suo cuore, nella sua essenza. Fates – vignette II ci spiana la strada verso The void chamber, che inizia in modo molto sensuale, salvo poi esplodere in modo schizofrenico, tra suoni duri e jazz. Yearning – vignette III, tra piano e fiati, ci porta all’ultimo capitolo di questo meraviglioso libro musicale, che è Eyes yet to open: con i suoi 17 minuti, è un viaggio dalle ombre alla luce, dal lato più black dei Fleshvessel fino a sfociare in un prog dalle sonorità esotiche; è ombra e luce, ha la capacità di gettarti nell’oscurità, di prenderti per i capelli, e di spingerti più a fondo e, successivamente, tenderti una mano per riportarti in superficie, farti fluttuare tra le nuvole e…sognare.
“E il naufragar m’è dolce in questo mare”, scriveva Giacomo Leopardi. Esattamente, perché i Fleshvessel riescono a proiettare l’ascoltatore in un universo manicheista, dove il bene e il male, la luce e le tenebre, si fondono e confondono, e facendolo fluttuare tra una moltitudine di suoni e strumenti, proprio come un naufrago che, in attesa di soccorso, galleggia con il dorso sommerso dalle acque oscure e il viso rivolto verso la luce del Sole. L’abilità dei ragazzi di Chicago, sta nel prendere musica classica, jazz, rock, death, heavy, black metal e prog, farla a pezzettini, prendere le parti migliori, assemblarle, creando una sorta di Essere, come il mostro di Mary Shelly in Frankestein o il moderno Prometeo. Eppure, nella fase di assemblaggio, nel momento in cui si uniscono parti così diverse del tessuto musicale, il rischio è quello di creare qualcosa di totalmente sgraziato: bene, scordatevi questa possibilità, perché i Fleshvessel hanno osato anche di più, aggiungendo, alla loro ricca line up di musicisti polistrumentisti, ulteriori ospiti – 4 per l’esattezza – creando una vera e propria orchestra al loro servizio. Insomma, un esperimento perfettamente riuscito.
Questo album è una ulteriore dimostrazione di quanto l’avantgarde, negli ultimi anni, sia il lato migliore del black metal: alla base c’è una costante volontà di sperimentare e cercare nuove vie, da parte di musicisti molto validi che riescono a produrre musica di grande qualità, innovativa, che ha la capacità di catturare l’ascoltatore.
I ragazzi di Chicago sono chiamati, a questo punto, alla prova più difficile: confermare quanto di buono palesato in questo disco.