Recensione: Zeal & Ardor
Eccoci giunti, con trepidante attesa, alla nuova creatura sgorgata dal genio perverso di Manuel Gagneux, che ha avuto modo di far parlare molto di sé in questi anni, ovverosia gli Zeal & Ardor, seguente di due anni il toccante Wake of a Nation, sgorgato dall’esigenza di dire la propria sulla morte di George Floyd. La combo ha saputo far breccia negli animi degli appassionati di sonorità estreme amalgamando con sapienza ed ardore – è il caso di dirlo – sonorità appartenenti ad un’anima spirituale e gospel ad influenze maggiormente elettroniche e black metal. In tal senso, un disco omonimo come quello che andremo ad analizzare, non può che essere di per sé un manifesto programmatico, nel quale si intende ribadire ed esplorare un’identità. Curiosamente, reca lo stesso titolo dell’EP di esordio, quasi a voler chiudere un cerchio. Ed è così che sin dalla serrata titletrack – che fa da introduzione al lavoro – appaiono ben chiare le coordinate lungo le quali il progetto intende muoversi. A prendere piede e dominare il sound sono suoni cupi, serrati ed industrialeggianti, pregni di un riffing monolitico e graffiante – basti ascoltare Run. Nonostante tale accentuazione dell’anima più cupa e rabbiosa della formazione, non mancano assolutamente sezioni – poste quasi sempre in corrispondenza dell’introduzione dei brani e dei refrain– in cui risuona il cantato di afflato gospel che ne ha caratterizzato la natura sin dall’inizio. Brillano in particolare in tal senso Death to the Holy e Feed the Machine, in grado di fondere elementi più spirituali ed elementi più pesanti in maniera brillante ed audace. I nostri non mancano tuttavia di sorprenderci con folli divagazioni come quella di Emersion, con un incipit si elettronico ma indirizzato in tutt’altro senso, quasi facente verso ad un Brian Eno sotto amfetamine. Il brano sfocia poi in una sezione blackgaze, tanto da farci chiedere se siamo piombati improvvisamente in un brano dei Deafheaven, sfumante in una conclusione pianistica solare, contrastante con la melanconia adombrata in precedenza. In Golden Liar vengono invece esplorate sonorità quasi cantautorali americane, a sottolineare la plasticità di Gagneux e la sua capacità di passare agevolmente da un genere all’altro, senza commettere peraltro passi falsi e dando luogo a composizioni che, considerate singolarmente, funzionano estremamente bene e scorrono piacevolmente. Non si può, parimenti, non essere attratti dal memorabilissimo refrain in pulito di brani come Erase e Church burns, in grado di catturare immediatamente l’attenzione dell’ascoltatore. La potente Götterdämmerung, in cui si respira quasi un respiro alla Anaal Nathrakh nella strofa, alternato ad un ritornello in pulito trascinante, costituisce quasi una sintesi di quanto gli Zeal & Ardor hanno voluto proporci in questa release.
In ultima analisi ci troviamo difronte un lavoro con sprazzi di genialità, isterico ma al tempo stesso gradevolissimo nella continua alternanza di sonorità dall’afflato ossimorico, sebbene non scevro da criticità. Sebbene i brani presentino una qualità piuttosto omogena e senza dubbio non mediocre, non vi sono picchi di genialità in grado di far gridare al capolavoro. Oltre a ciò, il già descritto pindarismo costituisce un’arma a doppio taglio: pur risultando intrigante ai primi ascolti, può dare l’impressione di un lavoro in cui gli episodi risultano eccessivamente scollati l’uno dall’altro, per dir così, e maggiormente meritevoli di esser presi ciascuno per sé. Insomma, non il disco dell’anno che qualcuno di noi si sarebbe aspettato ma un lavoro di tutto rispetto. E gli Zeal & Ardor continuano ad essere una delle cose più belle che siano mai potute accadere al metal.