Beppe Riva Pillars: recensione JUDAS PRIEST (Unleashed In The East)
JUDAS PRIEST
“Unleashed In The East”
1979
CBS
In coda alla recensione una mini-intervista a Beppe Riva
Recensione tratta dalla rivista Rockerilla numero 1, del gennaio 1980
SOTTO IL SEGNO DEL DEMONE HARD
Judas Priest: li ascoltai per la prima volta oltre un anno fa, con le voci che li assicuravano ideali prosecutori della malvagia filosofia dei Black Sabbath di “Paranoid” e dei Blue Oyster Cult di “Tyranny And Mutation” a muovere i fili più intricati della mia curiosità. Il loro album “Stained class” era il delirio di perfide personalità in preda alla follia, animate da una brutale concezione negativa risolta in maniera lapidaria in un heavy metal belluino e straripante di lugubri tonalità, parto originale di un’allucinante convinzione. Ma il successivo LP “Killing Machine” appariva inopinatamente una rielaborazione superficiale dei temi prima drasticamente sviscerati e, nonostante il buon livello complessivo dell’opera, non poteva che subentrare il fantasma di un tradimento insensato in favore di più ovvie emozioni.
Decisamente non doveva essere così, e l’attuale documento 1ive testimonianza di lontane performances nell’estremo Oriente, risulta piuttosto l’esito clamoroso di un incredibile processo di rianimazione, perché dal vivo il terrorismo spettacolare di Judas Priest assume le sembianze di un atavico e perverso rituale, che ritrova di colpo tutte le mortali intonazioni che lo caratterizzano idealmente come un act assatanato. E dopo un mese di ripetuti ascolti, ritengo di poter affermare che mai uno show di heavy metal trasferito su vinile, aveva acquistato tanto potere ipnotico, che mai si era mantenuto così pericolosamente in bilico l’equilibrio tra suono roboante e resa drammatica: un perfetto bilanciamento di tutte le componenti d’ordine espressivo e strumentale, ed un’insondabile convergenza di fattori determinanti hanno reso possibile che, “sguinzagliato nell’est”, il blasfemo Sacerdote di Giuda travalicasse nettamente i limiti imposti dalla registrazione di studio, per ascendère a livelli inusitati di anomalo coinvolgimento. Ma è abbandonandosi tra le spire del suono che è possibile rendersi conto di come il gruppo, squartando la carcassa del vecchio hard inglese riesca a riattivarne le componenti organiche più resistenti ed a renderle lucidamente operanti…
“Exciter”: il cantante/centauro Rob Halford, artificioso ma scioccante simbolo del male, ritrova, immediatamente la stregonesca potenza vocale che lo afferma e come il più truce erede di Ozzy Osbourne e dei Kip Trevor di “Sacrifice”, permettendosi di risuonare nitidamente sulle cascate di metallo che si schiantano dietro di lui, articolazioni sonore di intensa tensione.
“Running Wild”: grida feroci attizzano un rock duro e galoppante ed il ritmo serrato fa intravedere le ombre minacciose di un’orda distruttrice, che consuma fra il crepitare delle fiamme le ultime nefandezze di una scorreria barbara.
“Sinner”: gli echi inauditi della voce rimbalzano da una parte all’altra come palle di fuoco, illuminando a bagliori repentini il macabro scenario di un sacrificio umano; e là dove i Black Widow o i Van Der Graaf, su un tema di morte per molti versi analogo, accennavano con un sottile gioco di sfumature, Judas Priest risolve tutto in grandi spruzzi di sangue, calcando la mano su un’orgia di effetti chitarristici truculenti, autenticamente sepolcrali.
“Ripper”: la storia di un incredibile personaggio che, al calare dell’oscurità, si aggira per le vie di Londra in cerca di vittime mosso dall’istinto crudele della sua pazzia omicida. Un clima musicale sospeso e da incubo su cui si abbassano, come lame inesorabili, le chitarre.
“Green Manalishi/Diamonds & Rust”: due rifacimenti che fanno da tramite fra le due facciate: il primo è l’intorbidita versione del singolo che, segnò la fine della collaborazione Peter Green/Fleetwood Mac, ma è soprattutto il secondo che impone i Judas Priest come gruppo definitivamente malefico, con l’atto rumoroso mosso a bestemmia contro la soporifera eroina della non violenza, perché dei famoso hit di Joan Baez si tratta!
“Victim of Changes”: ancora un episodio della più pura tradizione dark, particolarmente nella seconda parte, dove la voce di Halford sembra librarsi dalle viscere della terra come richiamata alla vita da qualche rabbrividente sortilegio, ispirando cupi climi evocativi.
“Genocide”: un hard rock indiavolato nel mezzo del quale KK Downing, l’uomo dai capelli decolorati, riprende le frasi chitarristiche del primo infernale Sabba Nero di “Sleeping Village”; ed è la legittima apoteosi, perché solo Judas Priest ha oggi il diritto di diseppellirne le reliquie per porle come ulteriore sigillo della sua natura heavy.
“Tyrant”: l’ultima scorribanda selvaggia che conduce all’impressionante crescendo finale, degno suggello di un’esibizione all’insegna del metallo urlante.
Aggiungo che l’edizione originale inglese contiene un EP anch’esso “Live in Japan” dove risalta la superba versione di “Al Di Là Dei Reami Della Morte”, vaghe efflorescenze elettro-acustiche fracassate da riffs maniacali.
Judas Priest è per me l’”Alien” del rock, l’efficace trasposizione musicale di quel clima assurdo di spasmodica tensione che, trascendendo l’impianto scenograficamente opulento della science-fiction, aleggia implacabilmente sui protagonisti del film come una iettatoria condanna alla cruda espiazione; e nemmeno il finale apparentemente ottimistico riesce ad essere nitidamente liberatorio, a sgravare la rappresentazione da un soffocante senso di soprannaturale oppressione. Allo stesso modo il suono di Judas Priest si compiace della sua ossessione pessimistica, che conduce l’ascoltatore al respiro affannoso privandolo delle soluzioni possibilistiche a cui è uso.
“Unleashed In The East”: non è una parodia dell’orribile, ma ruvida celebrazione di un piacere malsano, ed il suono che scaturisce dai suoi solchi si maschera dietro parvenze così scopertamente ostili che non servono certamente a calamitare la cosciente attenzione di facili platee. Ma proprio in questo, credo risieda l’anticonvenzionalità di un approccio che non teme di stimolare sgradevoli sensazioni, derivate da peculiarità che nulla spartiscono con l’abituale accattivarsi le simpatie del pubblico. Sotto il segno del demone Hard.
SHORE’S BRIDGE OVER TIME
Oltre trent’anni dopo, ridiscutiamo Unleashed In The East con Beppe, l’autore della recensione.
Ciao Beppe, mi risulta che questa recensione suscitò parecchio clamore all’interno dell’allora agli albori panorama heavy metal italiano. Puoi raccontare qualche ricordo personale legato all’uscita di Unleashed In The East del periodo?
– Riletta adesso la recensione è decisamente eccessiva a livello di termini, ma bisogna rapportarla al periodo in cui uscì, quando i brani del disco apparivano “over the top”: si trattava di metal estremo per l’epoca. Dopo qualche tempo l’uso di un certo linguaggio si è ripetuto ad oltranza, rischiando in certi casi di apparire stucchevole. Ma prima dell’esplosione HM degli anni ’80 era senz’altro pionieristico, non mi sembra presunzione riconoscerlo. In definitiva, questo tipo di linguaggio è diventato quello dell’HM, almeno qui in Italia dove si ricorre ad uno stile espressivo più elaborato, meno diretto rispetto alla stampa inglese. Forse la recensione di UITE è stata la prima, all’inizio della mia avventura su Rockerilla, a suscitare alcune reazioni entusiastiche di lettori (quando non c’era ancora nemmeno una rubrica dedicata all’HM, né la stampa in genere se ne occupava granché), facendoci capire – non solo a me, ma soprattutto a chi gestiva la rivista – che valeva la pena insistere. Posso dirti che acquistai l’edizione inglese dell’LP+EP (diverso dal bonus 7” giapponese) da Carù di Gallarate, che allora era uno dei pochi punti di riferimento fra i negozi import, dove si trovavano regolarmente molti fantastici albums di heavy rock seventies che nel nostro paese interessavano a ben pochi; tutto ciò, nonostante il celebre titolare (co-fondatore del Mucchio Selvaggio) non amasse per niente il rock duro.
Ritengo questo album dal vivo lo spartiacque nella carriera dei Judas Priest. All’interno di questo solchi si ebbe la definitiva svolta verso l’HEAVY METAL a lettere maiuscole, indurendo il suono delle chitarre e pestando duro fino al cuore del metallo. Cosa pensi di questa mia affermazione?
– Penso che UITE sia il meraviglioso testamento della prima era dark dei Judas Priest, evoluta attraverso albums indimenticabili come Sad Wings Of Destiny, Sin After Sin, Stained Class, mentre Killing Machine (=Hell Bent For Leather) già somatizzava il momento di transizione verso le sonorità metal anni ’80 magistralmente definite in British Steel. Questo processo si era avviato in Stained Class, dove le sonorità apparivano più taglienti, ma pur sempre arcane e doomy; tornando alla tua domanda, si può ben dire che il Live “restaurasse” gli originali classici dei Priest in chiave più strettamente metallica, quella dei loro maggiori successi dal 1980 in poi. In sintesi, chiuso un leggendario capitolo, se ne apriva un altro storicamente altrettanto importante.
Dopo aver sentito e recensito Unleashed In The East che prosieguo ti aspettavi dai leoni di Birmingham?
-Innanzitutto all’epoca quando ascoltavo un album che mi entusiasmava, decidevo di recensirlo con l’aspirazione di trasmettere ad altri le mie emozioni: un’ottica più da fan che da professionista, però il mio bagaglio di conoscenza in merito era certamente professionale…Il Live aveva rilanciato la mia passione per il gruppo, un po’ intaccata dalla parziale delusione di Killing…, a mio avviso inferiore rispetto agli albums che l’avevano preceduto. Attraverso UITE si poteva guardare al futuro dei Priest con rinnovato ottimismo, ma nessuno avrebbe immaginato che la formazione di Birmingham sarebbe stata così longeva ad alti livelli. L’unica mossa infausta, non adeguata ad un gruppo di tale livello, fu quella di sostituire Halford con un suo clone, ma poi le cose si sono rimesse a posto, assolutamente.
Qui Beppe spara tutto quello che ti va di divulgare riguardo il disco sopraccitato – umori, odori, aspettative, brividi – e i ricordi legati al primo numero di Rockerilla, dal quale è tratta la recensione.
-Per quanto mi riguarda UITE resta uno dei grandi albums live della storia del rock (non solo metal) anche se quando uscì nessuno sospettava che fosse stato pesantemente “ritoccato” e in parte ri-registrato in studio (gli inglesi lo ribattezzarono sarcasticamente Unleashed In The Studio…). Ma non c’è da sentirsi defraudati per questo, l’evidenza è la mirabolante, sulfurea atmosfera fuoriuscita da quei solchi, che rimane inossidabile. Non lo recensii comunque sul primo numero di Rockerilla, forse era il primo del nuovo look della rivista, precedentemente uscita in formato da quotidiano. Ricordo che quello era per me un periodo di grandissime speranze; non mi aspettavo affatto di costruirmi un “futuro professionale” in questo campo (e alla fine tale leggerezza mi ha danneggiato) ma ci tenevo a ritagliarmi uno spazio in cui poter scrivere ciò che volevo, come sognavo a 13-14 anni quando iniziai a leggere riviste musicali. Sapevo anche che per me sarebbe stata dura, in una rivista all’avanguardia, devo ammetterlo, ma fondata da new wavers…Forse mi consideravano una specie di mostro di Loch Ness, e alle rare riunioni di redazione mi sentivo completamente fuori posto. Però non è andata neanche tanto male, almeno a livello di soddisfazione personale. A distanza di trentun anni, posso confermarti che il Live In Japan dei Priest per me rappresenta sempre un caposaldo, e mi spiace che non ne sia stata realizzata una ristampa del 30° anniversario con tutti gli extra possibili, privilegio toccato recentemente al terremotante British Steel.
Ah, nella recensione sono stato un po’ ironico a proposito di Joan Baez: non lo rifarei, ma certo non le volevo mancare di rispetto. Stimo chiunque abbia contribuito seriamente alla storia del rock, al di là delle etichette…
Articolo e intervista a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti