Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 2)
Terzo appuntamento con la rubrica di Giancarlo Trombetti: storia ed elucubrazioni sparse su Lou Reed, Velvet Underground, Andy Warhol, Jimi Hendrix, Nico, Alice Cooper ma non solo.
Buona lettura, è davvero il caso di scriverlo…
Stefano “Steven Rich” Ricetti
Per me è principalmente una questione di culo. Eppure ci sono fior di…di….come si chiamano….ah! Esegeti del Rock, che ne descrivono la carriera come quella di un genio della musica contemporanea. Questione di culo, per me. Una fortuna che non ha fine, anche a distanza di oltre quarant’anni, e quaranta anni, secondo gli enciclopedici, danno il diritto a una statua di cera al Museo di Madame Tussauds e una stanza tutta tua nella Rock and Roll Hall of Fame.
Parliamone.
Immaginatevi di essere un ragazzino newyorkese che vive la sua complicata adolescenza nei primi anni sessanta, siete senza arte né parte, non sapete tenere uno strumento in mano, potete vantare solo la stesura di “poemi di strada” ed una faccia tosta. Sì, avete anche tentato la via della musica pop, ma nessuno ha neppure preso in considerazione il vostro demo tape. Ma in particolar modo – hanno sostenuto alcuni – siete dotati di una predilezione nel finire nei letti di chiunque con estrema naturalezza. Immaginatevi quindi di essere in perenne ricerca di sesso (non necessariamente etero) e di droga pesante e di avere la fortuna di cascare nel giro della Factory, una sorta di ribollente calderone di un artista, quello sì, a nome Andy Warhol, un pittore e illustratore pronto a sperimentare in ogni campo della crescente Pop Art. Provate a immaginare l’Artista determinato a lasciare una traccia anche nel campo della musica, dove da qualche tempo si è applicato anche nella creazione di copertine di album del tutto innovative. Provate a pensare che Warhol decida di mettere a fuoco New York inserendola nell’universo della creatività della musica così come stava accadendo, spontaneamente e con ben altre premesse, dall’altra parte dell’America, in California. Ecco, ora immaginatevi che il vostro Pigmalione vi piazzi una chitarra in mano, vi mantenga a fianco un musicista alternativo, John Cale, un batterista con curriculum da garage, un bassista da barzelletta, ed insista per avere con voi una cantante tanto carina quanto priva di voce. La band è pronta. Dovreste essere al settimo cielo per la botta di culo, no? Soprattutto se pensate che Warhol perfettamente conscio della qualità….diciamo approssimativa della produzione, decida di mantenere uno splendido nome per la band (…sì un’altra allusione sessuale esplicita) e su quella allusione creare una copertina che resterà nella Storia dell’Arte : una fallica banana rosa in campo bianco, realmente sbucciabile. Quel riferimento risultò però così esplicito da fargli modificare il colore della banana dal rosa al giallo che è arrivato fino a noi.
Lo so : persino Wikipedia sostiene (o meglio : chi ha scritto quel post su Wikipedia e qua dovremmo anche avere il coraggio di affermare che il web è pieno di cazzate e che è molto più difficile trovare delle fonti credibili che azzeccare il sei al superenalotto!) che The Velvet Underground & Nico sia uno dei migliori album della storia del rock. A mio modestissimo parere, il parere di chi possiede, comunque, tutti i dischi dei Velvet ed una moltitudine di album di Lou Reed in teca, resta un’opera mediocre, priva di talento e con i soli semi di un paio di carriere ancora lontani dal germogliare. Oddio, migliore comunque dei prodotti successivi…
Fermiamoci, a questo punto, solo un attimo per sottolineare che i pareri, amici impegnati nella lettura, restano tali chiunque li stia pronunciando e, al di là della necessità puramente esteriore di far almeno finta di credere nella democrazia delle idee, valgono esattamente per ciò che sono : delle opinioni personali. E le opinioni personali non potranno mai avere altro che una valenza assoluta solo per chi le pronuncia. Fare di opinioni personali dei dogmi validi per tutti è uno degli errori più diffusi, ma anche più stupidi.
Io, quindi, resto, in questo caso, della mia opinione. Condivisibile o no.
Ma torniamo al nostro soggetto fortunato….il disco successivo del gruppo, parziale parto della fantasia di Warhol, è così pieno di quelle “improvvisazioni” cacofoniche e stonate – che alcuni Esegeti hanno avuto il coraggio di raffrontare a quelle dei Grateful Dead una band composta, al contrario, di musicisti e compositori reali – che anche i miei reiterati tentativi a scadenza quinquennale di farmi digerire “Sister Ray” sono sempre miseramente falliti. E i tentativi avvengono ciclicamente, da quando ho compiuto i miei tredici anni. Oggi sono un pochino di più…
Reed, omosessuale, eroinomane, poeta di strada e chitarrista dalle mani di marmo, invece di recarsi al Santuario di Montenero e ringraziare la Madonna, litiga immediatamente sia con John Cale che con Nico, protetta ed imposta da chi aveva deciso di creare una band a tavolino, non fosse altro per dimostrare che…”chiunque può avere i suoi quindici minuti di notorietà”; caccia chi può, si allontana da Warhol e si tiene il nome della band. Una cosa gli deve essere riconosciuta : un istinto animale per la stesura e descrizione di storie e vicende che bucheranno il tempo giungendo fino a noi. Non importa come. Probabilmente, almeno agli inizi, si trattava di stralci di vita vissuta. Speriamo per lui che la tendenza sia poi andata scemando…
I dischi dei Velvet Underground saranno conosciuti solo ed esclusivamente, all’epoca, per la incredibile promozione partorita dalla mente creativa di Andy Warhol, prima di diventare, con gli anni – per gli Esegeti in primo luogo e per chi ha dato loro troppo credito dopo – pietre miliari di un rock elementare da un punto di vista compositivo, sporco e maledetto ma, forse proprio per questo, amatissimo in seguito dalla generazione del punk.
Nella foto: Nico
La seconda botta di culo, Mr Reed la ottiene quando – falliti i tentativi di far valere gli avanzi dei suoi Velvet Underground musicalmente – e trovandosi sull’orlo della scadenza dei quindici minuti canonici o di una overdose definitiva, trova in David Bowie – fan sfegatato di Andy Warhol cui aveva pure dedicato una canzone – una seconda possibilità. Bowie, attirato dalla temibile forza sfigocentrica di Reed in cui vede un maestro del rock teatrale ed un poeta estemporaneo, decide di produrgli e pagargli di tasca il secondo disco solista, “Transformer”, quello che contiene la notissima Walk on the wild side, la canzone che tutte le ragazze amano canticchiare e che le radio passano senza sapere che parla di travestiti, pompini e marchette. La cosa , ovviamente, funziona. Bowie, ai tempi, aveva il Tocco di Mida.
Questione di culo terza parte. Tutto sembra in discesa, ora, ma Reed decide di rovinarsi la vita (commerciale) e partorisce “Berlin”. Seppur prodotto da un mago come Bob Ezrin, pagato da Bowie, è un album che narra la storia di una coppia, un non nominato “lui” e Caroline, due amanti tossicodipendenti; lui è pure omosessuale, cornuto e privo di midollo spinale, a detta di lei. Lei lo tradisce nei bar, così, come capita, in banda con le amiche. Si droga, è quotidianamente fatta, lui la mena – forse poco, come lui stesso ammette – poi l’assistenza sociale le porta via i figli e lei si suicida. Lui, commosso, fa un breve tour della casa ricordando come lei la vivesse fino a tagliarsi le vene e conclude convenendo con se stesso in Sad Song, che…“devo smettere di perdere il mio tempo: qualcun altro le avrebbe spezzato entrambe le braccia”.
Qualcuno ha dubbi sul fatto che sarebbe stato un disastro con queste premesse? Bene. Questo è forse il disco più osannato e amato di Reed che ha da poco persino festeggiato i trentacinque anni dell’album facendone un film ed un disco live. Da ascoltare toccandosi rigorosamente le palle. Non si sa mai. Eppure alcuni brani, presi singolarmente, non sono poi disprezzabili, avendo un loro fascino contorto. O forse così mi appaiono a causa dei miei tentativi quinquennali?
Fatto sta che – botta di culo parte quarta – Lou Reed litiga pure (questi geni!) con la Rca a seguito dell’ennesimo disco scadente e decide di fornirla di un disco doppio a chiusura del contratto. Il disco si chiama Metal Machine Music ed altro non è che il feedback di una o più chitarre in totale distorsione appoggiate su di un bancone con un animale (un gatto?) che passa sopra le corde, occasionalmente. Tutto questo per quattro, interminabili, indigeribili, facciate.
Ecco, se cercate, senza sforzarvi, troverete che gli Esegeti del Rock (magari proprio quelli che sono riusciti a definire Frank Zappa un artista “decadente” – per chi non fosse del mestiere, Zappa sta al rock decadente come una Ferrari sta a una lavatrice – stanno ancora lì, con la bavetta alla bocca, a credere che quella sia Pura Arte. I Giapponesi, periodicamente, se ne stampano copie numerate, di quel parto di genio. E lo ascoltano pure! Convincendosi che si tratti di Musica e non di uno che ha messo la chitarra appoggiata per terra in feedback e se ne è uscito a farsi un cappuccino. Ecco, è in quel momento che Lou Reed capisce che qualunque cosa sceglierà di fare, gli verrà perdonata, anzi, gli verrà acquistata e ben giudicata. Ora sì che la strada è in discesa, fino ai nostri giorni.
Nella foto: Lou Reed
Perché vi parlo di costui, vi domanderete. Semplice, perché Lou Reed è la dimostrazione che la famosa ricerca del “disco perfetto” cui ho fatto cenno e di cui, vi prometto, esporrò la mia teoria la prima volta che me ne verrà ispirazione, è basata non solo sulla tecnica compositiva e sulla qualità artistica, ma anche sul distillato dell’essenza di Puro Culo. Il fattaccio accade a cavallo tra il flop di Berlin e del successivo Sally can’t dance : la casa discografica, nella seconda metà del 1973, incazzata come una pantera per la debacle, costringe Reed a darsi una mossa, pena il ritorno ai vicoli di New York a frugare tra i bidoni.
Il cantante va in tour con la band che Bob Ezrin gli aveva messo in piedi per le registrazioni di “Berlin” ma che Reed aveva deciso di tenere rigorosamente in secondo piano. Con lui, ci sono Steve Hunter e Dick Wagner, un bassista indiano, Prakash John, un buon batterista ed un tastierista poco più che invisibile. Con questa formazione, Reed si esibisce per poche settimane, poi accortosi che l’attenzione, serata dopo serata, si andava concentrando sui due solisti, sulla band e sulla musica da loro prodotta, invece che sulla sua persona, capito che di sera in sera l’atmosfera era sempre più ispirata, caccia tutti e conclude il tour con un paio di mezze pippe al loro posto.
Così, mentre i bootleggers, disperati, stampano per i posteri un noto disco illegale sarcasticamente chiamato Whatever happened to Dick and Steve ? in Rca, prima che il Poeta si rinvenga e cancelli persino le prove di quelle poche, meravigliose serate, decidono di pubblicare uno degli album live di hard rock più limpidi e luminosi di tutti i tempi. Rock and Roll Animal è perfetto persino nel nome; da quel momento la definizione verrà usata ogni tre per due da qualsiasi critico che si rispetti o che voglia veder pubblicato il personale : “I cento migliori dischi del rock”. Ecco, è ascoltando dischi come questo che ci si rende conto che qualsiasi cosa possa accadere alla nostra musica, se sono esistiti – casualmente – momenti così ispirati, il rock and roll non potrà davvero mai morire!
Tutto va al suo posto in quelle tracce : Dick Wagner e, soprattutto, Steve Hunter sono incredibilmente tanto efficaci quanto melodici, tanto devastanti quanto esaltanti e riescono a regalare interpretazioni da sogno alle scarne canzoni di Reed la cui prerogativa principale, la semplicità compositiva, viene utilizzata come fondamenta per la ricostruzione di brani oramai anni luce lontani dagli originali ma pronti per entrare a testa alta nel mito.
Un’operazione interpretativa – Dio mi perdoni il confronto! – simile a quella compiuta dal genio di Jimi Hendrix con la All along the watchtower di Bob Dylan. Ma con risultati che le diverse personalità ebbero ad assimilare in modo del tutto difforme. Dylan compose un poema criptico e corrosivo, indicandone la musicalità con poche note. Hendrix creò con una chitarra su quelle scarne note le fondamenta del rock odierno. Hendrix era un ragazzo complessato, convinto, a torto, di non avere le qualità necessarie per comporre testi all’altezza, ecco perché guardava a Dylan come a un poeta assoluto, capace di fiutare l’essenza dello spirito dei tempi e di renderlo in versi. Jimi non immaginava quanto sbagliata fosse la valutazione di se stesso e come il tempo, gentiluomo, gli avrebbe reso merito. Bob Dylan – non certo un personaggio alla mano e arrendevole, certo consapevole di quale fosse la sua statura artistica – ascoltata la versione resa dalle mani di Hendrix, scelse la più difficile delle strade : si spossessò del proprio parto e affermò pubblicamente che quella canzone, da quando Hendrix ci aveva messo mano, era sua e sua soltanto, di Jimi. E prese, da allora, a eseguirla (o farla eseguire ai propri musicisti)….”alla Hendrix”.
Lou Reed, no. Lui, puro istinto animale e essenza di strada, non accettò che le sue canzoni scarne, dalla ritmica basilare, venissero elevate (in questo caso, sì!) a pura arte rock and roll, e gettò alle ortiche un gruppo affiatatissimo e con esso anche la genialità interpretativa del duo Wagner e Hunter ed il loro momento di massima ispirazione. Ma a Lou Reed che la introduzione strumentale alla sua Sweet Jane divenisse uno dei duelli solisti più ricordati e amati dal pubblico del rock, a Lou Reed, che la sua storia tanto efficace quanto agghiacciante narrata nella lunghissima Heroin venisse resa con perfetto altalenare di alti e bassi chitarristici, di momenti di quiete e di improvvise accelerazioni, proprio come le sensazioni di un tossico fino alla devastante chiusura propria del flash di eroina mentre lui poteva, finalmente libero, urlare le famose parole “…quando l’eroina inizia scorrere nelle vene, a me non frega proprio più niente, di tutti i giovannini della città, e di ognuno che frega l’altro, e di tutti i politici che producono suoni strani, e di tutti i cadaveri ammucchiati a cumuli..” e Dick e Steve là dietro a sparare incredibili, sovrapposti quintali di note che i nostri vecchi stereo individuavano in canali separati, e noi a tentare di capire chi fosse più metallico, chi più ficcante, a quel Lou Reed che la sua simpatica (e nulla più) Rock and roll si trasformasse in un inno al suono duro, con un solo di basso lì a separare il muro sonoro del Gran Finale, a Lou Reed, che persino i brani del Capolavoro della Sfiga, Berlin, acquistassero nuova linfa, nuova forza, vesti mai immaginate, a Lou Reed, di aver sfiorato con mano “Il Disco Perfetto” non fregò mai niente. Non solo. Ha sempre rifiutato di volerlo commentare.
La Rca Victor – o qualcuno da quelle parti con un briciolo di cerebro residuo – comprese che tutto era perduto, tranne i nastri originali e pubblicò, a sangue del cadavere ancora caldo, Lou Reed Live, un altro estratto di quella sera, nella speranza che la Storia non ci passasse accanto senza voltarsi. Dick Wagner e Steve Hunter non restarono per troppo tempo inoperosi. Bob Ezrin li passò pari, pari con il resto del gruppo a tal Alice Cooper che con loro registrò uno degli album più amati, quel Welcome to my nightmare che ancora oggi ci ricorda che Alice ha avuto un cuore che pulsava rock and roll. Cooper non si fece pregare e se li portò in tour, per qualche anno, ma non ebbe mai la forza di tentare pure lui un live che facesse, una volta per tutte, dei due un mito da museo delle cere. Forse lo fermò la paura del confronto, dato che l’ “Alice Cooper Live” che contiene estratti di quella band, non ha neppure lontanamente l’impatto del disco dal vivo di Lou Reed.
A noi tutti non restò altro che coccolarci quel Rock and roll animal come una perla rara, sperando nel frattempo che un autobus che ponesse fine alla stupidità del newyorkese. Anche sulle strisce, non importava : la Nemesi ha sempre ragione. A me, ragazzo alle porte della maturità classica – un po’ per ignoranza, un po’ perché internet e le informazioni, all’epoca, non viaggiavano così veloci – rimase lo scorno di una trasferta a Milano, con le orecchie grondanti di quelle chitarre gemelle e nel cuore la speranza di riempirmene anche gli occhi. Era l’autunno del 1974; Dick e Steve erano già scomparsi, ma nessuno ce lo aveva detto, così come nessuno ci aveva preparato all’esibizione di un branco di imbecilli che al grido di “la musica è nostra e non paghiamo!”, oscurarono le luci del palasport con un lancio di cubi di porfido strappati alla pavimentazione che fecero fuggire Reed e cancellandone il concerto. Qualcuno che non aveva capito un beneamato cazzo gli urlò pure nazifascista, a causa di certe sue iconografie nere e dubbie e di quel titolo, Berlin, di cui l’urlatore aveva solo compreso la collocazione geografica. Nazista a lui, Lou Reed, omosessuale e ebreo. Mah….!
Fu quasi la rivincita della Sorte.
Non la presi bene, ma non soffrii più di tanto, dopo aver scoperto che nessuno dei due miei solisti stava sul palco. Ci rimasi peggio quando mi resi conto che da quel momento avrei dovuto affrontare lunghe trasferte per vedere un po’ di rock, dato che la politica giovanile dell’epoca non prevedeva il pagamento del prezzo del biglietto, e di musicisti che suonavano gratuitamente c’erano sulla piazza solo gli Inti-Illimani. Certamente non tra i miei preferiti…
Per qualche anno, cinque o sei, la musica venne cancellata dall’Italia. Riprese solo con il decennale itinerante di Woodstock e con i due concerti, incompresi, di Patti Smith. Un giorno ne parleremo insieme, dato che il Mito non corrisponde alla realtà, stavolta.
Ancora oggi, però, quando sono sicuro che non sarà necessario riflettere troppo sulla strada da percorrere in auto e quando Ike, il mio springer, non è sdraiato in bauliera e non rischia la sordità per causa mia, metto su il cd di Rock and roll animal, mi sparacchio la Intro suonando la mia chitarra immaginaria, canto a squarciagola Sweet Jane e riesco persino a immedesimarmi per qualche attimo con Heroin e penso quanto impalpabile sia la linea che divide il genio dalla banalità, l’improvvisazione dalla creatività, l’ironia dal ridicolo. E quando le orecchie mi fischiano per il troppo volume, cambio disco, prendo il live dei Cowboy Junkies, “Long Journey Home” – una band canadese che dovreste avere il coraggio di assaporare – e mi godo l’unica band che riesca ad ascoltare nonostante utilizzi persino una fisarmonica, in mezzo alle chitarre distorte e riesca pure a farmela sentire adatta.
E’ in quel momento che capisco come possa, persino Lou Reed, aver detto che solo loro abbiano saputo rendere una versione incredibile di Sweet Jane. La migliore mai udita.
E rifletto sul fatto che, ogni tanto, persino i fessi baciati dalla fortuna dovrebbero avere quei rari momenti di lucidità che gli fanno capire che anche quelle cose meravigliose che non hanno avuto il coraggio artistico di valorizzare fanno parte delle cose… che non puoi più fare dal vivo….
GIANCARLO TROMBETTI