Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 3)
Et voilà, ecco il quarto appuntamento con i “Consigli Non Richiesti” di Giancarlo Trombetti.
“Porte scorrevoli : dove si tratta di cugggine, di gioventù passata, di tastiere, di dispiacere per chi non è riuscito a entrare nel Mito con due piedi e di imbecilli, la cui mamma, lo si sa, è perennemente incinta”.
Buona lettura.
Steven Rich.
SLIDING DOORS
Sliding doors. Non so se avete presente l’esempio. Si tratta di quelle occasioni o situazioni che vi accadono e che finiscono col determinare modifiche della vostra vita che, probabilmente, non avrebbero mai avuto possibilità di aver luogo. Pare strano ma funziona così per ognuno di noi. La mia porta scorrevole si chiamò Barbara. No, non una fidanzata giovanile, ma mia cugina. Anzi, mia cugggina, dato che era ed è ancora romana, per quel che mi è dato sapere. Barbara, leggermente più anziana di me, negli anni della mia infanzia rappresentava “la donna” ed i suoi arrivi a cadenza annuale, per le ferie estive, erano un piccolo, grande, sconvolgimento della routine della mia vita. Da Roma arrivavano le mode ed i modi che qua, nel mio paesone, sarebbero giunti solo più tardi, e sa Iddio in quale modo filtrati.
Dovete sempre tener presente che internet, telefonini, giornali specializzati non esistevano e che allora la televisione era ancora in bianco e nero. Due canali. C’era la radio, ma solo uno spicchietto di essa, che poteva venire in aiuto a un ragazzino appassionato di musica. Non era situazione che vivevamo solo in Italia, se nel Regno Unito si dovette creare la mitica Radio Caroline; andate a guardarvi il film che uscirà a breve, se volete conoscere lo spirito dei tempi…. L’arrivo di Barbara coincideva con quello di Anna – Annetta per gli amici – che proveniva da Milano; sempre per le ferie estive. Anna e Barbara erano amiche ed io mi trovavo nel mezzo, dato che entrambe vivevano nel medesimo condominio. Niente di sessuale, maligni! Eravamo troppo giovani…e anche se un vecchio detto toscano suggerisce che…non c’è cosa più sopraffina che #@*mbarsi la cugina… io non ho mai messo in pratica il consiglio.
La verità è che le due ragazze avevano una particolarità: erano entrambe appassionate di musica “pop”. Così, mentre Barbara teneva per i Beatles, Anna era più attaccata ai Rolling Stones. Molta altra musica, molti 45 giri stavano nel mezzo alle due fazioni e un mangiadischi di fòrmica rosa ingoiava e risputava per ore ed ore decine di singoli che a Viareggio non sarebbero arrivati forse mai se qualche casa discografica italiana non avesse deciso di distribuirli. Niente negozi di importazione, ai tempi!
Ecco, spesso mi sono trovato a chiedermi cosa sarebbe stato del mio gusto musicale se non fossi stato svezzato a Beatles e Stones fin dai miei nove, dieci anni di vita. Forse avrei la discografia completa di Morandi, forse starei ancora lì a canticchiare…”quella tua maglietta finaaaa…”, con il groppo alla gola. Forse sarei un sorcino. No, meglio non pensarlo nemmeno! Credo proprio che le mie tendenze abbiano preso una piega giusta in quei pomeriggi passati in un garage o sulla antica rotonda al mare di fronte casa a memorizzare ogni nota dei singoli di “Sgt. Pepper’s” o di “Beggar’s banquet” e successive uscite. Un grazie a entrambe per l’inconsapevole indicazione che probabilmente salvò la mia sanità mentale, anche se la mia vita sociale ne soffrì per molti anni; non fu facile, difatti, convivere con amici e amiche discotecare, frequentare festine casalinghe al ritmo di Caterina Caselli e con pochissime possibilità di parlare un po’ della propria musica con altri appassionati.
Ricordo perfettamente, però, che Jimi, Led Zeppelin, Jethro Tull e Black Sabbath li scoprii da solo, furono il mio salto di qualità, mentre il mio primo 45 giri acquistato e scelto in perfetta solitudine fu quel “Some Velvet Morning” dei Vanilla Fudge che aveva sulla copertina impresso – ricordo perfettamente – un bollino con su scritto “vincitore della Gondola d’oro di Venezia 1967”. La cadenza lenta, ipnotica, quasi calmante della canzone mi aveva coinvolto e le tastiere psichedeleggianti erano un suono del tutto inusuale, rispetto al resto. E poi mi emozionavano quei tre inconsueti secondi di confusione strumentale a chiusura del brano. Un modo inaudito per dire stop…Ecco, le tastiere….tra Mick Jagger e Paul McCartney, tra la ritmica di Richards e il basso di Macca, con Anna e Barbara, c’erano spesso i singoli di un gruppo californiano, i Beach Boys, le cui canzoncine venivano ascoltate allora con giovanile sufficienza, senza recepirne a fondo la portata. No, non era certo “Barbara Ann” (…incredibile la coincidenza del titolo, no?) o “I get around”, “Surfin USA” che mi avrebbero dovuto colpire, ma quella scioccante “Good Vibrations”, l’inno alle “buone vibrazioni” californiane edulcorato per i giovani bianchi e le classifiche e che proponeva, per la prima volta, l’uso del sintetizzatore in una canzone pop.
Nella foto: Some Velvet Morning, 45 giri dei Vanilla Fudge
I Beach Boys faranno sorridere molti lettori, ma ci sono molti che sarebbero pronti a dimostrare a chiunque la loro profonda influenza sull’uso delle armonie vocali dei più grandi gruppi rock di tutti i tempi, scommettendo sulla definizione di Brian Wilson nella veste di genio sfortunato (o poco coraggioso). “Good vibrations”, invece, è un pezzo che andrebbe ascoltato almeno una volta nella vita calandosi in quel 1966 californiano senza l’esistenza del quale io sono convinto che molti di noi non avrebbero nulla di buono da ascoltare oggi. E per scoprire quanto articolata fosse quella composizione musicale per una canzone pop.
E’ per quei suoni di sintetizzatore che sono sempre rimasto profondamente colpito dall’utilizzo progressivo, innovativo, di una tastiera e che ho sempre trovato assolutamente idiota e infantile il vezzo di sottolineare la mancanza di qualsiasi genere di tastiere in un disco rock – non so se i più vecchi di voi ricordano la scritta “absolutely no keyboards or synthesizers!” sulle copertine di molti dischi heavy degli anni ottanta ?! – o l’orgoglio di molti miopi rockettari nel prendere le distanze da quelle decine di gruppi che, al contrario, sulle tastiere basavano gran parte della propria produzione. E della propria arte compositiva.
Forse mi farò molti nemici, e probabilmente ci sarà chi vorrà darmi – dall’alto del proprio gusto musicale – del fesso, ma devo sottolineare come quelle che vengono definite “nuove tendenze” heavy metal siano quanto di più distante dalla mia logica e del mio buonsenso musicale proprio a causa della più assoluta, totale mancanza di due caratteristiche fondamentali della musica stessa : la Melodia e l’Arte della Buona Composizione, essendo la magia della Interpretazione, il terzo, imprescindibile elemento della Triade. Tutto maiuscolo perché senza una logica consequenziale melodica e senza una raffinata composizione non c’è musica, c’è solo ritmo, non c’è Arte, ci sono solo muscoli, non c’è esecuzione, c’è solo (quando presente!) tecnica; e la musica composta solo da tecnica, muscoli e ritmo, mi spiace, ma non fa per me.
E dato che è bene parlar fuori dai denti, un “cantato” growl (che correttamente si può tradurre con grugnito o ringhio) a me fa solo sorridere ed un ritmo da duecento battute a creare un muro impenetrabile non produce interesse, ma solo mal di testa. Quanto al concetto di evoluzione del genere, vi sfido a una piccola prova : prendete un album a caso dei Sabbath, fatelo girare al doppio o triplo della velocità e ditemi se questa è evoluzione. No, grazie, sono troppo navigato per scivolare su queste bucce di banana ed amo troppo ascoltare attentamente – ascoltare, non sentire – per apprezzare la musica e non scegliere di farmi assalire da una mandria di grugnitori tutti uguali.
E, ahimè, privi nella stragrande maggioranza dei casi, di facoltà compositive. Perché io resto convinto che il Rock non solo non sia morto, ma che possa ancora dimostrare di essere vivo e vegeto; la sua malattia attuale è la mancanza di grandi compositori. E quella che da qualcuno viene interpretata come una mia nostalgia è semplicemente l’amara constatazione che non si sa (o non si vuole) più comporre canzoni, musica, come una volta. La colpa non è delle tendenze, forse, diciamo non solo, esiste anche una forte responsabilità nella mancanza dei reparti “artistici” delle etichette che sono morti e defunti o forse la colpa è anche dei tempi che stiamo vivendo. Ricordo una considerazione, anche se me ne sfugge l’autore, acuta di chi ebbe a sostenere che…”più si imbarbariscono le situazioni sociali e politiche e più la musica diventa cruda, dura”. Forse è vero.
Forse abbiamo semplicemente perso i riferimenti, forse si è creduto che cancellarli sia stato un passo in avanti, forse rendere sempre più dura ed impossibile da gustare la nostra torta è interpretato come un balzo epocale. Ma io ho l’impressione che si tratti di frittata , più che di torta e che, in ogni caso, per giudicare il nuovo si debba per forza di cose anche conoscere bene il vecchio. Non esiste legislatore che si alzi una mattina per scrivere un nuovo codice senza conoscere profondamente, il vecchio; e conoscere il vecchio codice non significa solo conoscere a memoria l’ultimo comma. Non so se mi sono spiegato.
Nella foto: l’Lp omonimo di Emerson, Lake & Palmer
Vogliamo tornare ai nostri sintetizzatori?
Dunque il rock l’avevo assimilato, ma al di là delle orchestrazioni di “Sgt Pepper’s” o del piano occasionale dei dischi degli Stones, avevo scoperto ben poco. Avrebbero dovuto essere alcuni giovani eroi del nascente sintetizzatore Moog o pionieri di un uso innovativo dell’organo Hammond (…il famoso Leslie con il ventilatore…oddio, che tempi!), forse i Renaissance, o Brian Auger o The Nice, o mille altri a riuscire a emozionarmi. Restavo interessato ma non coinvolto.
Fu l’ascolto di uno dei primi “supergruppi” a lasciarmi basito. Per la prima volta, un trio non formato da basso, chitarra e batteria, ma da tastiere, basso e batteria : Keith Emerson, Greg Lake e Carl Palmer furono la spinta definitiva all’apertura verso un genere che ha rappresentato una branca fondamentale del nostro rock.
Il disco omonimo d’esordio è ancora oggi, a 39 anni dalla pubblicazione, un capolavoro di equilibrio compositivo, esecutivo e interpretativo. Un bilanciamento assoluto. Questi sono gli album che possono sfidare il tempo e che nessuna ruggine può scalfire. E se riascoltare la sequenza dei sei brani del disco mi emoziona ancor oggi – e fa venire ogni volta le lacrime agli occhi al bergamasco in ritiro, il mio compagno di merende Beppe, grande appassionato del trio – prendere in mano il live registrato praticamente all’esordio, al Festival di Wight – il primo festival degli ELP e l’ultimo di Jimi – può aiutare a capire quanto coraggioso e innovativo fosse l’approccio del gruppo. “The Barbarian”, adattato dall’ungherese Bela Bartok, è puro heavy rock eseguito con una tastiera, mentre la lunghissima, articolata, “Take a pebble” interpretata dalla cristallina voce di Lake è brano che nessuno oserebbe definire figlio della nostalgia canaglia. Neppure Albano Carrisi. E poi quella “Lucky man” caratterizzata dal lungo solo finale di Moog, un solo rubato, letteralmente, alle prove di utilizzo che Emerson faceva dello strumento e che, nonostante ciò, divenne la caratterizzazione di un suono che molti avrebbero adorato e che colpì cinque ragazzi milanesi al punto di spingerli di scrivere la “loro” Lucky man…..”Impressioni di settembre”…
Lo so, l’anno precedente era stato pubblicato l’esordio di un’altra luminosa band inglese, i King Crimson dell’immenso sperimentatore Robert Fripp, uno cui il coraggio di saltare da una sponda all’altra, da un universo all’altro, non è mai mancato, ma alle mie orecchie, specialmente a distanza di tempo, quello spettacolare “In the court of the Crimson King” suona più come un album “di Greg Lake” più che “di Fripp”, nonostante l’eccezione dell’indimenticabile inno alla follia di “21st century schizoid man”.Ma non possiamo certo liquidare ELP e King Crimson con poche righe. Ci torneremo. Volevo solo ricordarvi come una tastiera – sia essa un piano a coda o un più moderno sintetizzatore – rappresenti non solo uno degli strumenti più difficili da eseguire, ma anche uno dei più affascinanti e al tempo stesso più in grado di completare, colorare un brano.
“I veri musicisti compongono al pianoforte” – mi disse una volta un amico, chitarrista, sicuramente tra i vostri favoriti, un italo-americano – peccato che io sia una pippa….chissà cosa avrei potuto scrivere se avessi saputo suonarlo…”. Non lo so, Stefano. Per certo so soltanto che quelle estati mi incoraggiarono a cercare nuove frontiere, nuovi nomi, pur restando sempre rigorosamente fedele alle mie radici rock.
Sarà forse il caso di spendere qui qualche riga a difesa di uno dei gruppi rock più sottostimati che ci sia pervenuto dall’Inghilterra. La motivazione giunge per aver menzionato melodia, composizione e interpretazione. Bene, gli UFO hanno donato tonnellate di questi tre elementi a tutti coloro che non si sono fatti deviare da cattivi consigli o che li hanno giudicati con sufficienza…un giorno in cui sarò particolarmente acido vi descriverò – facendo nomi e cognomi – i metodi “critici” con cui molti improvvisati censori abbiano contribuito a tenere lontani dall’Italia decine di gruppi rock di qualità, semplicemente grazie alla sufficienza, alla protervia e alla malafede con cui essi scelsero di trattarli. E se proprio non poterono massacrare – ma ci fu pure chi lo fece, eccome! – gli Zeppelin o i Purple, si sfogarono con artisti considerati, a torto, minori. Gli UFO furono tra questi. Ho ancora in mente una recensione di Ciao 2001, e scusate la parolaccia, che nel 1979 distruggeva “Strangers in the night”, uno dei live più luminosi dei settanta, così come ricordo perfettamente una devastante recensione di “Lights out” altrove, la mia memoria ogni tanto mi salva cancellando i brutti ricordi…
Nella foto: Strangers In The Night degli UFO
Ma dal 1970 e per una dozzina di anni almeno, Phil Mogg e Pete Way scrissero alcune delle più belle canzoni rock che l’Inghilterra possa vantare. Potremmo elencarne a decine, ma limitandosi solo all’essenziale, Doctor doctor, Rock bottom, Built for comfort, Out in the streets, Mother Mary, This kid’s, Natural thing , Love to love, Too hot to handle, Lights out, Electric phase, e mille altre ancora sono veri inni allo spirito del rock and roll : melodia, grande forza interpretativa, eccellenti qualità compositive, immensa tecnica.
Ai critici italiani dei tempi non andò mai giù che l’hard rock in genere non mostrasse contenuti “socialmente rilevanti”; per chi si limitava a bearsi del povero Ivan della Mea, Giovanna Marini, del Canzoniere del Lazio o delle dichiarazioni di quei rocchettari nostrali che a parole “prendevano posizione” ed a fatti rincorrevano le vendite, gli argomenti semplici del rock inglese erano un affronto. Per la quasi totalità degli scribacchini dei Settanta l’hard rock è stata la musica dei ragazzini scemi, se possibile di destra. Capirete voi oggi quanto lontano fossero dalla realtà, gli Esegeti, i Profeti del Tempio del Rock che Non C’è.
A me non è mai interessato se Mogg o chi per lui scriveva di contenuti banali; mi importava sentire come li cantava; non mi interessava capire se Way fosse un gran bassista o quanto Raymond fosse un tastierista di contorno, se Parker un batterista creativo o no: ciò che contava è che facessero da cornice a uno splendido cantante, dalla grande estensione vocale, Mogg, e ad almeno tre chitarristi che per diversi motivi amo tutt’oggi centellinare nei miei ascolti. Mike Bolton, Michael Schenker e Paul Chapman mi hanno fatto sognare. E fischiare le orecchie per più di una serata di ascolto tosto! Per me gli UFO e Phil Mogg rappresentarono per molto tempo l’hard rock da cantare a squarciagola, sentendosi per una mezz’ora un inesistente corista della band di un cantante tanto più giudicato di valore quanto ebbe sempre a capire quanto sarebbe stato importante, per lui e per la band, farsi da parte e lasciare sbizzarrire i propri solisti. Non una cosa da poco, in un mondo di primedonne!
Cosa non funzionò in quel gruppo da impedirgli di sfondare del tutto anche in patria? Forse mancò l’elemento sessuale – Mogg non piaceva più di tanto alle rockettare – o forse un buon management. Non saprei. So solo che disconoscere la bellezza di una dozzina di anni di ottime produzioni sarebbe ingiusto, oltre che folle.
Ho avuto la fortuna di vedere le tre incarnazioni basilari degli Ufo, la prima delle quali dall’altra parte del viale di fronte a casa mia, quando la mia Viareggio poteva vantare il Piper senza saperlo e senza volerlo. Da quel locale basso e fumoso, sono passati, sotto i miei occhi di ragazzino, le creme del nascente rock inglese. Tra questi gli Ufo prima incarnazione. Ricordo una “Who do you love” ed una lunghissima “Prince Kajuku” che mi convinsero a portar con me un registratorino, da quella serata, per non vivere di soli ricordi sbilenchi. Ho goduto come un riccio a vedere e sentire il Grande Pazzo Michael e la cascata di note che sapeva far uscire dalla sua chitarra, lui, ragazzino tedesco imberbe e con un inglese zoppicante. Ho fatto tanto di cappello al coraggio di Mogg di affidarsi a un ragazzino appena maggiorenne, ho visto nascere una stella di rara portata e rara follia, sempre a causa della droga e dell’alcool. Mi sono beato davanti alla potenza e alla efficacia di Chapman buttato nella mischia a sostituire Schenker quando le vicende hanno richiesto una svolta; lui, un gallese, una sorpresa, un timidone con una sensibilità e una personalità musicale luminosa.
Questo a riprova, se necessità ve ne fosse stata, che senza grandi canzoni, grandi esecutori e grandi melodie, non si va da nessuna parte. Se avrete voglia e passione, gettatevi su un qualsiasi live del gruppo di Mogg, senza dimenticare “Strangers in the night” e quello alla BBC, ricordando di destinare quattro soldi pure per assicurarvi i cinque brani live di “Headstones”, una ottima raccolta; poi tornate a casa, alzate il volume e mettetevi seduti a riflettere su come il Fato, a volte, ti consegni in mano tutti i mezzi e le credenziali senza regalarti anche la Fortuna. Una band immensa! Anche nell’alternanza della sorte.
E dato che abbiamo accennato all’attitudine tutta italiana a distruggere senza conoscere e troppo spesso senza avere neppure ascoltato o mai visto….diciamo che con una tendenza tutta masochista ma cui non riesco a venir meno, mi trovo spesso a sfruculiare nel web, dove si trovano perle indimenticabili di saggezza perversa. E voglio cogliere questo spunto per aggiungere un altro esplicito consiglio non richiesto anche se io, presuntuosamente, credo che tra queste righe siano nascosti più indizi di quanti ne potrei offrire facendo un lungo elenco di nomi e prodotti…
Abbiamo fatto cenno alla Sacra Arte della Composizione, elemento essenziale ad ogni brano musicale e che, più è presente, più lo protegge dallo scorrere del tempo. Abbiamo anche detto che ciò che manca oggi e principalmente il Sacro Fuoco dell’Interpretazione, che non è da confondersi con la tecnica. In un gruppo di oggi, ne sono certo, si trova molta più tecnica di quanta ve ne fosse in dieci di una volta. Forse. Ma certamente mille volte meno creatività, sentimento, emozione. Quello che gli anglosassoni – buon per loro che godono della facoltà della sintesi dialettica – chiamano feeling.
Bene, soprattutto per pigrizia, non avevo mai acquistato un doppio cd uscito quattro anni fa, e attribuito a un gruppo (un altro supergruppo…sarà il caso di dedicar loro una o più puntate, no?) che ho amato moltissimo e che ho imparato ad apprezzare sempre più con lo scorrere del tempo. I tre erano così certi della qualità della loro Arte da scegliere di chiamarsi Cream, la crema, il meglio.
Nella foto: Wheels Of Fire dei Cream
I tre, unitisi nella formazione più classica del rock blues del tempo, basso, chitarra e batteria, avevano alle spalle già carriere ben delineate e militanze importanti prima di decidere di marchiare nei secoli a venire il segno del cambiamento dal blues bianco inglese all’hard rock blues grondante psichedelica e melodia al tempo stesso. Eric Clapton, Jack Bruce e Peter “Ginger” Baker hanno regalato alla Storia immense interpretazioni, grandissime esecuzioni di classici, canzoni indimenticabili, riuscendo persino a inventare – ognuno a suo modo e sul proprio binario – tre nuovi modi di suonare il rispettivo strumento. E il potenziale donato al trio dalla possibilità di alternare – e selezionare secondo necessità – le due voci di Clapton e Bruce, non ha potuto che ampliarne l’offerta qualitativa.
D’altra parte non c’è esperto musicale, scafato o meno, che non possa riconoscere a Jack Bruce di aver elevato nel rock il basso a funzione di strumento solista – come Jaco Pastorius o Stanley Clarke possono aver fatto nel jazz e nella fusion. Non c’è fesso che tenga che possa disconoscere le invenzioni della batteria di Baker come strumento in grado di far vivere una canzone nella canzone, scindendo le sue pelli ed i suoi piatti dal resto degli strumenti. Non c’è pazzo che non possa ammettere che Eric Clapton abbia contribuito alla crescita della chitarra solista e che le diatribe tra il maggior peso tra lui e Hendrix non abbiano oggi più alcun senso se non quello di averci fatto godere di due immensi esecutori nel medesimo periodo storico. E la più totale libertà nell’esecuzione di ogni brano è caratteristica unica del trio. Là dove l’Experience di Hendrix era concentrata sulla sconfinata unica fantasia interpretativa del chitarrista, i tre londinesi volavano ognun per conto suo. Contemporaneamente.
Non esiste, o dovrebbe esistere, chi possa negare ai Cream di aver rappresentato uno dei tratti di unione tra la scena blues bianca e il rock, dando vita a quella meravigliosa musica che è l’hard rock e che, privo delle sue radici blues, nulla avrebbe mai potuto donare.
Sì, i Cream hanno impersonificato il volo del blues spiccato nel territorio della psichedelica e dell’hard rock, complice l’eroina e l’uso di qualsiasi droga si trovasse sul tavolino in quei tempi. Ed è difficile ammettere che un giorno dovremo fare i conti – noi che siamo pure astemi e che non abbiamo mai fumato – con ciò che l’uso delle droghe ci abbia dato modo di ascoltare. Senza di loro avremmo ancora decine di artisti vivi e vegeti, certo. Ma forse senza di loro, tanti fumi e deliri non si sarebbero mai concretizzati in quella musica che sfida i tempi. Beh, direi che potrà essere un argomento di cui dibattere, no?
I nostri Cream ci hanno lasciato in eredità solo quattro album ufficiali di cui uno postumo e due live singoli, anch’essi postumi, ed anche se sul web è facilmente reperibile una acuta recensione di uno di quegli Esegeti cui abbiamo fatto cenno che descrive “Wheels of fire” come “fumo negli occhi prodotto da tre giovani sboroni” e che consiglia il live alla Royal Albert Hall quanto di infilarsi un dito in gola dopo una sana mangiata al ristorante perché “confuso, sporco, privo di passione e di piacere di suonare sia il furioso assalto al loro repertorio ivi immortalato”, io mi permetto, dal basso della mia personale opinione, di suggerirvi di farvi una breve e fruttuosa ricerca presso quei rivenditori di cd a prezzi concorrenziali, di sperperare quei 10 euro e rotti per garantirvi “Live at Royal Albert Hall 2005, The reunion concert”, un doppio cd che risveglierà nei più attempati emozioni abbandonate in un cassetto e permetterà a chi ne abbia passione e voglia di guardare dentro la storia della propria musica.
Il suono della testimonianza è bello, fin troppo pulito e rende di Clapton una versione molto più bluesy, più matura, di quella che i due live e Wheels of fire ci avevano tramandato; l’uso del wha-wha da parte sua è inesistente in questa occasione, ma alcune interpretazioni, a trentotto anni dal concerto di addio, fanno drizzare i peli sulle braccia. Pur facendoci capire che anche quelle, nonostante tutto, siano emozioni….che non puoi più fare dal vivo….alla faccia mia e di tutti gli Esegeti del rock and roll….
GIANCARLO TROMBETTI
Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti