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Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 4)

Di Stefano Ricetti - 20 Agosto 2009 - 11:22
Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 4)

Quinto appuntamento con la rubrica “Consigli Non Richiesti” da parte di Giancarlo Trombetti.

Anno 1969. Woodstock ma non solo, vedasi Post Scriptum finale con aneddoto inedito D.o.c.g.

Buona Lettura

Stefano “Steven Rich” Ricetti

Nel 1969 avevo già compiuto i miei tredici anni. L’incosciente di mio padre, appassionato di motociclette, mi aveva comprato un cinquantino e faceva finta di non sapere che, appena lui girava l’angolo, me ne andavo incoscientemente in giro senza avere ancora l’età. Erano altri tempi. Nell’ottobre del 1969 sono in prima Ginnasio, Liceo Carducci, un anno avanti. Qua l’incosciente è mia madre che crede di avere un figlio genio, avendo per le mani un bischero come tanti altri. Nel 1969 iniziano le occupazioni ai licei e alle università un po’ dappertutto, in Italia; in Francia ci hanno anticipato di poco. Nel 1969 vola il Concorde per la prima volta, Arafat viene eletto a capo dell’Olp, a Milano esplodono bombe e si muore. Nel 1969 Neil Armstrong mette piede sulla luna, ed io son lì, davanti alla televisione in bianco e nero e ci credo, come tutti; poi ci diranno che forse non era vero. O forse si. Nel 1969 Gheddafi va al potere, nasce il nonno di internet e si chiama Arpanet. Nel 1969 Charles Manson massacra Sharon Tate a Bel Air; la Tate è la bellissima moglie del regista Roman Polanski ed è incinta al momento dell’omicidio.

Manson da il via ai massacri in nome di Satana. Nel 1969 nasce il quotidiano Il Manifesto e quello di Lotta Continua. In Italia si muore, a destra e a sinistra. Spesso, troppo spesso, anche nel mezzo, ossia muore chi proprio non ne aveva l’intenzione. Nel 1969 c’è Piazza Fontana, Pinelli, Annarumma, lo studente di Pisa. Troppo sangue. Ho solo 14 anni, quasi, e già quest’anno mi fa schifo. Eppure nel 1969 eravamo avvolti da una musica bellissima, meravigliosa, unica, irripetibile. La creatività è al suo apice, la fantasia vola così in alto che non saprà mai più discendere sulla terra, il music business non ha ancora capito cosa stia realmente accadendo e forse neppure noi ne siamo completamente consapevoli. Ma soprattutto il mondo degli Affari Musicali non ha ancora capito da quale parte prendere il movimento e trarne vantaggio. La qualità dei prodotti musicali nel 1969 è incredibilmente elevata, il momento è magico, lo senti ovunque, nell’aria. I tempi stanno cambiando ed il profumo emana dappertutto. Nascono talenti così cristallini e unici che ancor oggi chiunque annusi anche soltanto la musica non può evitare di esserne influenzato. Un solo elenco sarebbe riduttivo e parziale. I Beatles sono agli sgoccioli, e sarebbe una tragedia, ma possiamo anche fregarcene tanto è il talento che ribolle ovunque. E pure oggi, quarant’anni dopo, ad una analisi a mente fredda, l’appassionato di rock non riesce a capacitarsi di come tutto ciò possa essere accaduto. Così, tutto insieme. Dappertutto. Nel 1969, per caso, Michael Lang e Artie Kornfeld decidono di organizzare un concerto che, sfuggendogli di mano, diventerà al tempo stesso sinonimo del più grande spettacolo di tutti i tempi e chiuderà, sarcasticamente, l’epoca delle meraviglie, perché dopo quei tre giorni i colletti bianchi avranno imparato la lezione e sapranno come prendere il toro per le corna.

Noi eravamo altrove, quel venerdì 15 agosto e ci saremmo rimasti forse per sempre, e così come il resto del mondo non avremmo mai capito che piega stava prendendo la Storia se solo quel capellone sorridente di Lang non avesse avuto la geniale idea di voler dare il compito a Michael Wadleigh di realizzare un filmato che ebbe il compito di far entrare nella leggenda chi c’era. Che ne avesse diritto o no. Che un giovanissimo Martin Scorsese fosse là, ad aiutare quel regista, sarebbe stata una notizia solo molti anni dopo. In quell’estate del 1969 tutto avvenne per caso e tutto ciò che si sarebbe tramutato in un disastro in qualsiasi altra situazione – lo spostamento della sede, la mancata realizzazione della recinzione che impedisse l’ingresso, la presenza di pubblico in misura di cento, mille volte in più del previsto, il forfeit di decine di artisti, il temporale, il fango, la scarsità di cibo, l’impossibilità da parte della piccola Bethel  di essere pronta a accogliere dai 500mila al milione di ragazzi, l’incasso azzerato, le spese prive di copertura – finì con il contribuire a creare una leggenda che solo la supponenza di chi vuole sentirsi controcorrente può spingere a distruggere. O a sottovalutare con sufficienza.

Woodstock non è solo un simbolo, è la prova della potenza dell’immagine sulla parola, sulla musica, sul verbo tramandato. E se è buffo leggere quarant’anni dopo i rimpianti di chi avrebbe potuto esserci e scelse, scientemente, di non comparire, è assurdo rendersi conto che c’è chi vive ancor oggi nella fantasia e nei ricordi, pur non avendone alcun diritto artistico. Woodstock è stata munifica anche con costoro. Non vi sto qui a raccontare quel che, con un paio di clic potrete o avrete già potuto trovare ovunque, sul web o sulla carta stampata; quella storia è nota e disponibile per chi voglia sapere. Vorrei solo permettermi di sottolineare come, senza quel famoso filmato a schermo diviso a metà (!), per il resto del mondo, quel weekend non sarebbe esistito.  E la Storia avrebbe preso un’altra via, sicuramente. Ciò che accadde divenne alla portata di tutti, quel che venne suonato, detto, fatto, divenne pietra di paragone per gli anni a venire. Nonostante tutto. E se da un mero punto di vista musicale, doversi ancora sorbire Richie Havens o John Sebastian dopo quaranta anni è spesso straziante, è meraviglioso sapere, ad esempio, che senza quel film il mondo avrebbe perso la più bella interpretazione di “With a little help from my friends” mai eseguita, pochi avrebbero ascoltato il devastante medley di “I’m going home”, pochi più avrebbero saputo della “Star Spangled Banner” devastata dal feedback di Hendrix. Prova di ciò ne sia che Incredible String Band, Blood Sweat & Tears, CCR, Johnny Winter, Grateful Dead, solo per nominarne alcuni, erano lì, ma solo una minima percentuale di appassionati lo sa, dato che non sono mai apparsi nel film. Fu lì che il music biz iniziò a far pesare le proprie scelte : pochi giorni dopo il diluvio, pochi giorni dopo il D-day.

Capisco che non sia facile capire per chi ha oggi alle spalle magari solo la metà degli anni di quelli che ci separano da quella data, ma forse sarebbe giusto provare a calarsi nella storia. Leggersi un libro tra i tanti che sono stati pubblicati quest’anno, sapendo selezionare e volendolo fare. Ascoltarsi qualcosa senza supponenza, ma con lo spirito dello speleologo che sa affascinarsi scendendo alle radici del Tutto. Vi parrà strano, ma Alvin Lee dei Ten Years After venne considerato il chitarrista più veloce del mondo dopo quella bellissima “I’m going home” e riascoltarsela oggi fa ancora venire i brividi. The Who suonarono un set emozionante, con Pete Townshend a prendere a calci in culo Abbie Hoffman che voleva politicizzarne l’esibizione, ma l’unica, breve “See me feel me” fu sufficiente a tramandarne la presenza. E se i Grateful Dead vennero torturati dalle scariche elettriche causate dagli strumenti bagnati dopo la pioggia, i Jefferson Airplane con la cristallina voce della Grace Slick salirono sul palco all’alba del secondo giorno con otto ore di ritardo sulla scaletta. Il tempo non era passato invano, però; molti altri non previsti avevano suonato. Hendrix salì sul palco alle nove di mattina del lunedì 18, il quarto giorno, davanti a “sole” alcune decine di migliaia di persone; molti se ne erano già andati. Indimenticabile la sequenza del film con le colline semivuote e sporche, i ragazzi in marcia verso il mondo normale, Jimi in un abito bianco a improvvisare “Villanova Junction” o “Spanish Instrumental solo” o come chiunque abbia deciso di chiamarlo, tanto, quel brano, un nome non lo aveva mai avuto, chiudendo con un semplice “grazie” e pochi istintivi accordi una pagina mai ripetuta.

Molto diversamente sarebbe andata un anno dopo, a Wight, con lui a chieder scusa e cercare di riprendere uno show che non andava, con una pedaliera lontana dai suoi mocassini, ed un conato di vomito mortale che lo avrebbe cancellato solo pochi giorni dopo. Ma riesce difficile descrivere a parole la scoperta di un giovane e sconosciuto Santana o dei crescenti CSN & Young, dei duri Mountain o della dimenticata Janis Joplin. La verità sta non nelle loro canzoni, ma in quel lungo pezzo di plastica che fissò per sempre le speranze, i sogni, le paure e le ingenuità di una generazione. Da quel pezzo di plastica di dodici millimetri imparammo a credere che quel che accadeva fuori dalla nostra porta di casa avrebbe potuto essere fermato, cambiato, come quel mondo che volevamo diverso. E non importa oramai se non ci riuscimmo mai, anche se qualcuno crede ancora di poterlo fare. Fuori tempo massimo. Perché se esistono emozioni che non possono essere più essere fatte dal vivo…beh queste ne sono l’esempio più lampante.

Nel 1969 mille e mille e mille altre luminosissime stelle iniziarono a brillare senza esser mai state neppure inquadrate da Michael Wadleigh e quasi tutte hanno ancora motivo di luccicare oggi. Ma i lampi di quei giorni non li vedremo mai più. E questa sì che è nostalgia. Nostalgia figlia della consapevolezza. E non mi importa se oggi va di moda dire che Woodstock sia stata poca cosa. Io credo che siamo tutti figli di Woodstock anche senza saperlo. Anche se ascoltare Joe Cocker cantare l’inno di Ringo Starr non vi ha mai fatto venire le lacrime agli occhi. E non sapete davvero cosa vi siete persi.

PS: Un post scriptum polemico.
Lasciatemi divertire un po’, ogni tanto…ho letto in queste pagine commenti dove si sostiene che io non conosca quel che dico quando parlo di Death Metal. Scusatemi, ma da appassionato ascoltatore, a cinquantatre anni, ho la presunzione di sapere perfettamente quel che dico. E quando ascolto certe cose e dico che quello è un suono che non mi piace, so esattamente ciò che sostengo e a ragione. D’altra parte è sempre stato fin troppo facile stuzzicare i metallari : il loro neo più evidente è sempre stata la assoluta mancanza di rispetto dell’opinione altrui. Chi non ama il gruppo preferito è un idiota o un ignorante. Pazienza. Non cambieranno mai.

Ho anche letto come qualcuno si sia fatto molte risate leggendo una mia affermazione di cui detengo il 50% del parto. Quella “dei Sabbath a 78 giri”. Bene, è un aneddoto inedito che voglio raccontarvi, tanto per passare il tempo. Molti anni fa, ebbi a scrivere che il disco d’esordio di un noto gruppo di Los Angeles fosse una merda. Mi dettero del cretino, ma ancor oggi sono della medesima opinione. Anni dopo, mi ritrovai a caldeggiare vivamente a un label manager italiano la distribuzione di un disco del medesimo gruppo che io ritenevo un capolavoro. Ed ancor oggi sono di questa opinione. Successe che il tipo – uno sveglio, come ce ne sono rimasti pochi in discografia – finì col fidarsi e alle copie stampate in Italia unì una distribuzione aggiuntiva di importazione; episodio non raro ma certo non comune. Gli andò bene, così bene che furono vendute grosso modo – vado a memoria – dieci volte di più le copie previste per quel genere di album.

Così il mio amico volle farmi un regalo : mi portò alla prima europea del tour di quel gruppo e mi regalò una targa di quelle che si attaccano al muro per fissare l’evento. E per essere ancor più stronzo, mi fece consegnare quel piccolo quadro proprio dal chitarrista baffuto di quel gruppo, non dopo averlo informato di quel mio, vecchio e, speravo, dimenticato episodio. Il chitarrista fu simpatico, ma qualcosa doveva rodergli, perché mi chiese, con schiettezza, cosa esattamente non mi fosse piaciuto in quel disco di esordio. Molto imbarazzato gli risposi che…sostanzialmente…mi erano parsi dei ragazzini che si erano messi a suonare “high speed Sabbath’s riffs”. Il biondino la prese bene, tant’è che si mise a ridere e disse : “Beh, allora è la verità…siamo tutti dei fans di Iommi e lo spirito della nostra gioventù ci aveva spinto a velocizzarne lo stile”. Poi si fece più serio, abbassò un po’ lo sguardo e, sussurrando, mi disse : “Sai cos’è che mi spaventa? Pensare che arriverà il giorno in cui ci saranno altri ragazzi che lo faranno con i nostri dischi….quel giorno sarà un bel casino…”. Se mai dovessi incontrare di nuovo James Hetfield gli dirò che alcuni lettori si sono fatti un sacco di risate con le nostre riflessioni…

GIANCARLO TROMBETTI

 

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti