Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 5)
Sesto capitolo dei Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti che, as usual, si destreggia alla grande fra Kraftwerk, Zappa, Pink Floyd, Gong, Faust, Guru Guru, Can, Soft Machine e molti altri ancora.
Buona lettura.
Steven Rich
Ricordo un splendido monologo di Gaber – uno tra i tanti – in cui alla base del ragionamento si poneva la necessità…”di accordarsi sul senso”, sul senso delle parole. E sarà forse qui il caso di farlo subito. Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della Follia” fa affermare, alla follia medesima di “avere il dono di rallegrare gli dei e gli uomini” proprio nel suo incipit. E non vedo affermazione migliore per definire la follia : un dono degli dei agli uomini che ha il potere di rallegrare entrambi. Ma cosa è follia per ognuno di noi? Se aveste la voglia di andarvi a ricercare nelle teche Rai, sul web, un famoso sketch di Tognazzi e Vianello che venne censurato dai dirigenti dell’epoca, passereste ore a cercare di comprenderne i motivi; in un qualsiasi spot del giorno d’oggi c’è molta più provocazione e sottintesi che i quei cinque minuti. La follia di chi era : dei comici o dei censori? Se vi venisse la voglia di leggervi un quotidiano di 50 anni fa ed uno qualsiasi di oggi capireste come si sia evoluta, o involuta, la dialettica sociale e la visione politica. Da qualsiasi parte la si guardi. Di chi, in questo caso, il delirio? Di chi ha perso lo scopo della professione o di chi ha premuto l’acceleratore affinché ciò accadesse? Se vi venisse voglia di spulciare internet per cercare immagini e soluzioni tecniche di un ciclomotore chiamato “Lui” dalla Innocenti, vi verrebbe da sorridere a pensare che, quarant’anni fa, venne definito “troppo moderno e innovativo”. Demenza degli ingegneri o degli acquirenti? E limitandoci al nostro misero orticello musicale ? Per qualcuno, nel 1965 fu follia che un cantautore di solide basi folk e acustiche si presentasse sul palco del Newport Folk Festival – il festival folk più importante d’America – suonando con una band di blues elettrico. Era Bob Dylan e la band era la Paul Butterfield blues band e esistono ancora bootlegs e registrazioni ufficiali che non hanno ancora deciso se follia sia stata o no. Realtà vuole che la carriera del Poeta in odore di Nobel per la letteratura proprio in questi giorni sia ancora così viva e vegeta e piena di episodi del genere da togliere qualsiasi dubbio. Per qualcuno follia fu mescolare qualche sostanza chimica non propriamente adatta al corpo umano e farne fonte originale di ispirazione compositiva. Per altri follia fu vestirsi e definirsi come mai nessuno ebbe a fare in precedenza. Per qualcuno fu follia organizzare uno spettacolo in stile Jack the Ripper e uscire sul palco da una bara, una decina d’anni prima di Alice Cooper (Screamin’ Lord Sutch), per qualcun altro vestirsi da transessuali, chiamarsi Le Bambole di New York e suonare rock and roll tossico (New York Dolls). Per me la follia viene da dentro, non se ne sta fuori. Esce fuori con le note, non dai vestiti; casomai questi l’accompagnano, le fanno da contorno.
Non so voi ma io sono sempre stato attirato dal diverso, dal folle, dall’estremo. E per estremo non intendo un suono dal decibel eccessivo, ma dal contenuto e dalla sostanza creativa fuori-da-qualsiasi-schema. No, non intendo qua provare a dare una visione del Genio per Eccellenza della Follia Lucida, di quel Zappa Frank Vincent che ha influenzato la mia vita e il mio modo di giudicare e ascoltare le musiche e i loro mille sottoprodotti; il giorno che troverò il coraggio di sforzarmi a dare concretezza dialettica a una Fonte di Vita, per me, a una Religione, dovrò essere al massimo della mia lucidità. E non è oggi il caso. Ma dato che Frank Zappa ha rappresentato molto per tutti i più grandi musicisti e compositori moderni, dato che dalla sua morte sono emersi decine e decine di artisti “rock” che ne hanno sottolineato l’influenza, pur senza aver mai avuto l’Uomo un airing radiofonico o una presenza sui media – pensate che il Rolling Stone americano, la “rivista alternativa”, non lo ha mai voluto in copertina in 42 anni! – ho pensato piacevole provare a elogiare la follia di coloro che, consciamente o meno, guardarono oltre il dito, tanto tempo fa. O giusto l’altro ieri. Vedendo La Luna.
E torniamo ad accordarci sul senso : secondo il mio punto di vista non è follia suonare rock and roll in modo anomalo. O semplicemente bene, benissimo, stupendamente. Lo è inventarsene un genere. Quindi, per me, non rappresentano follia i Beatles dell’album bianco o di “Sgt Pepper’s” per quanto geniali, ma un’evoluzione del loro stile. Al contrario trovai folle e immensamente attraente un gruppo di quattro ragazzini bianchi inglesi che, in piena esplosione pop e con i club londinesi grondanti blues elettrico, credettero “normale” presentarsi da una casa discografica con in mano un singolo-non-singolo come “Arnold Layne” o “See Emily Play”. Per loro, fu normale entrare negli studi di Abbey Road proprio mentre i Beatles registravano l’omonimo album e mettere insieme “The Piper at the Gates of Dawn”, magari sperando in qualche passaggio radiofonico dei dieci minuti di “Interstellar Overdrive”. Ma era il 1967 , forse l’inizio del biennio più creativo di tutti di tempi nei secoli a venire e c’erano in attività anche label manager che pensavano che il mondo avrebbe saputo apprezzare anche questo. E gran parte di esso lo fece. I Pink Floyd da elogiare per l’essenza della loro follia non sono quelli dell’Album Perfetto “Dark side of the moon”, sono quelli della quadrilogia del delirio che va dall’esordio a “Meddle”, alternando sperimentazioni lisergiche e visioni tossiche a emozioni acustiche di una delicatezza ed un delirio sconcertante. I Pink Floyd, forse senza volerlo, senza capirlo, hanno aperto quelle “porte della conoscenza” anche per noi rischiando loro, fisicamente, la morte per overdose o la cottura dei neuroni residui e lasciando a noi tutto il gusto del risultato della loro esplorazione. Hanno suonato e composto guardando oltre, non al passato. I rumori diventavano note e le note diventavano sinfonie in un insieme di rara potenza pur sotto totale controllo emozionale. Ho detto che Dark side è album perfetto; ma lo sarà solo se riuscirete, prima, ad assaporare ogni singolo suono dei quattro dischi precedenti per sprofondarvi, poi, nell’intera sequenza del disco, assaporando anche le poche note orecchiabili come necessarie agli scopi e concentrandovi sulla visione completa del concetto del disco, dei suoi suoni nascosti, fino al loro elogio della follia di “Brain Damage” e della conclusiva “Eclipse”, l’apoteosi della pazzia. Un esempio di come un disco possa restare un capolavoro per più generazioni restando uno dei più venduti della storia; un disco dove ognuno potrà rispecchiare le proprie emozioni sovrapponendole a quelle degli altri senza rischiare di confondere mai l’essenza e lo spirito dei contenuti. Un disco da ascoltare per intero, testi alla mano, se possibile al buio, utilizzando la propria fantasia per evocare i quadri ed i personaggi immaginati dai compositori. Un disco che, dopo 36 anni sa ancora regalare ascolti “nuovi” a qualsiasi vecchio appassionato, ma che aprirà la mente a chi vi si avvicinerà con rispetto. Uno dei dischi perfetti. Uno. Dei…
Ma non possono essere i Floyd l’esempio principe della follia. Ne sono solo l’aspetto più noto. In Germania, sulla loro scia, nacque un intero movimento musicale la cui sola punta dell’iceberg è nota ai più. E forse solo per nome. Là si seppe coniugare la nascente psichedelica con l’uso dei sintetizzatori, fondendola al personale istinto vitale di un popolo restio a non pianificare la propria vita… I tedeschi, è duro ammetterlo, furono in grado di inventarsi il Kraut Rock, così come lo chiamammo anche noi con una certa puzza sotto il naso. E c’è qua da sottolineare una vicenda che mi fa ancora incazzare profondamente dopo tanti anni, in una sorta di delirio nazionalistico; perché se persino i freddi teutonici sono riusciti ad uscire dal guscio delle loro (all’epoca) due nazioni, chiusi da una mentalità calcolatrice e lontani dall’essenza creativa per come la intendiamo noi, riuscendo a dar vita a una corrente musicale personalissima e riconoscibile che, seppur figlia delle esperienze altrui, scavandosi una propria dignitosa casella nell’archivio della storia del rock, ha lasciato a noi italiani – i supposti creativi per eccellenza – l’uomo nero degli ectoplasmi del rock, di coloro che non hanno neppure saputo far tesoro del coraggio altrui. Mi chiedo qui come sia stato possibile che nel Paese dove la Nobile Arte dell’Arrangiamento e della Fantasia è dogma, non si sia saputo dar vita a non dico a una vena musicale rock riconoscibile, ma anche a un solo gruppo degno di risalto internazionale. Se escludiamo i brevi fasti della Premiata Forneria Marconi. I nostri Dei, a Lugano, possono girare per strada tranquilli : nessuno li riconoscerà. Tranne la Pausini, forse. E, vi prego, che non si erga ferito nessuno degli onesti mestieranti nostrali. La realtà è questa e forse è tale anche, e soprattutto, per colpa di chi non ha saputo dir loro, al momento giusto, che una percentuale minima di personalità non è mai pervenuta alle orecchie di chi li recensì, di volta in volta. Forse gli sarebbe stato più di aiuto di una sterile recensione positiva. Di un demo o di un dischetto autoprodotto.
Ma torniamo al Kraut Rock. Che non è quello dei Kraftwerk,o, almeno, non è quello dei Kraftwerk che conosce il pubblico, quelli del pop commerciale e danzereccio, ma dei loro primissimi prodotti o quello degli sperimentatori come gli avvolgenti Tangerine Dream, portati alla notorietà dall’immenso fiuto del Sommo Richard Branson, proprietario della Virgin Records, l’etichetta più coraggiosa che l’Inghilterra abbia avuto dall’inizio dei settanta. I Tangerine Dream furono gli esploratori della psiche privi del lato lisergico; attivi dalla fine dei sessanta, attesero il ’75 e Branson per esporre con “Phaedra” il volto dell’elettronica “a tavolino”. Laddove gli sperimentatori come i Floyd si imbottivano di ogni cosa pur di trovare nuove sensazioni da riprodurre in musica, i tedeschi, freddi e pianificatori, erano tutti studenti di ingegneria, pittori, artisti che trovavano nella musica uno degli sbocchi. Musica interamente elettronica, glaciale talvolta, fondata sulle tastiere, da ascoltare, insieme a quella più acustica ed evocativa dei Popul Vuh i precursori della Ambient music e della New Age, grazie al loro incredibile “Hosianna Mantra”, datato 1972. In piena era hard rock.
Ma non è ancora questa, forse, la vera crema della follia, non è questo il massimo della contorsione compositiva. Forse, se davvero avete curiosità del delirio rock, sono i Faust i miei preferiti. Ecco, la triade composta da Faust, Can e Guru Guru è stata il mio compendio di passeggiate fuori dagli schemi nel corso dei primi settanta. Una nota importante su tutte : se è vero che il senso dell’ironia e della provocazione è ingrediente essenziale del Rock, se ha un senso dire che è fine a se stesso essere matti senza saper ridere di se stessi, se torna anche a voi che la vita presa troppo sul serio perde di gusto in breve, bene, i Faust sono la riprova che persino un popolo ordinato come il tedesco può ridere. E divertire. L’opera del gruppo si racchiude in un tempo brevissimo, quattro album sparati in due anni e di cui almeno tre degni di comparire nel mezzo di qualsiasi raccolta non omogenea. Il primo, “Faust”, in vinile trasparente e con la radiografia di un pugno chiuso al centro, è l’iniziatore di un suono che nessuno, neppure oggi, ha mai saputo definire. Ma se davvero la curiosità vi morderà al punto di “volerci provare”, dovete rivolgere l’occhio, per primo a “So far”, immensa opera di puro genio, sfuggente a qualsiasi gabbia, dall’originale confezione assolutamente improponibile ai nostri giorni: album interamente nero, dalla copertina al dischetto cartonato, con le sole parole in rilievo visibili esclusivamente in controluce; contenente una cartellina di quadri neri, con piccolissime e colorate immagini al centro di ognuna, una per ogni brano del disco. Testi scarni e risibili (“è una giornata di pioggia, ragazza assolata”, tutto qua per sette minuti! Oppure “la mamma è blu e papà è blu ed anche tu sei blu”, per sei… ), del tutto superflui, un puro sberleffo, ma musiche e suoni incredibilmente affascinanti, indefinibili, sfuggenti, non memorizzabili. Al primo ascolto di So Far vi sentirete profondamente presi per i fondelli, al secondo incuriositi, al terzo interessati, al quarto assolutamente coinvolti. Fu quello che dovette accadere a Branson che per la sua nascente Virgin Records (e per il suo nascente immenso capitale a venire) volle as-so-lu-ta-men-te distribuire il gruppo in Inghilterra. Fu così che “The Faust tapes” (in vendita al prezzo di un 45 giri, 48 pence per centomila copie in pochi giorni) anticipò il bellissimo “IV”, canto del cigno del gruppo. Suoni ripetitivi, su cui strumenti tra i più improbabili si sovrappongono fino a creare una mescolanza avvolgente, che ti fa sembrare tutto logico e facile come se l’avessimo immaginato proprio così, fin dall’inizio. E sciocca, di conseguenza, ogni prevedibile postura tipica dell’iconografia rock, a posteriori. Tutto quel che venne dopo queste perle fu solo il tentativo di continuare a inventare qualcosa di impossibile da raggiungere dopo aver dato tutto, in un attimo. Possedere “So far” e “IV” e imparare ad apprezzarli è un bel salto sulla sponda scivolosa della follia.E se dirvi che gran parte delle invenzioni del primo (solo quello!), inarrivabile, Brian Eno (da solo, con i Roxy Music, con Bob Fripp) hanno avuto origine proprio nei micro deliri dei Faust può stimolarvi…beh, lo faccio…
I Can, pionieri del rock d’avanguardia danno l’essenza del loro meglio dal 1971 al 1974, mentre i Guru Guru sono catturati al meglio nel live “Kanguru”, ed anche se li ho ascoltati a lungo, mi paiono oggi un po’ troppo “semplicemente” rock per entrare con merito in questo elenco. Ma dove dovrete assolutamente includere – in quella scorreria tra i semi della follia che mi auguro di suggerirvi – qualsiasi produzione dei prolificissimi inglesi Gong di Daevid Allen, vero folletto del rock, audace mescolatore di psichedelica, racconti di gnomi, formaggi elettrici, hard rock, jazz e sperimentazione e tutto con le poliedriche reincarnazioni del suo figliolo prediletto. I Gong sono forse la band più zappiana mai esistita in Europa, anche se la vicinanza di suoi molti elementi, incluso Allen, e le similitudini musicali con la scena rock di Canterbury li rendono forse più facilmente inquadrabili del Maestro. Con i Gong è possibile mettere d’accordo gli amanti del rock tramite la chitarra fluida e luminosa di Steve Hillage con i fan della fusione jazz/rock inglese attraverso il sax di Didier Malherbe; i fanatici del suono tecnico con la batteria di Pierre Moerlen con gli appassionati di space rock per le moltitudini di tastiere. Su tutto, trascendente, aleggia il delirio cosmico di Allen, attivo fin dai primi sessanta (!!!) e poi musicista di un altro gruppo meraviglioso, i Soft Machine. Altri folli ! La produzione dei Gong è sconfinata anche se il meglio è racchiuso tra 1970 ed il 1977, ma è la famosa trilogia Radio Gnome , quella delle “teiere volanti” e dei “folletti testa di teiera” che racchiude la summa della produzione dell’australiano. “Flying Teapot”, “Angel’s egg” e “You” sono, insieme al precedente “Camembert electrique” quattro album imperdibili, pieni di musica bellissima, strumentali lunghi e affascinanti, con una storia delirante di teiere provenienti da un altro pianeta e guidate da gnomi-testa-di-teiera per portare l’amore sulla Terra attraverso le onde di Radio Gnomo. Ogni solco è un piacere ed un passo fermo nella terra della follia. D’altra parte provate a immaginare cosa mai avrebbe potuto uscir fuori da un insieme così composto : Allen, un australiano con la passione del free jazz e della psichedelica, cacciato dall’Inghilterra per il suo atteggiamento anarcoide; Gilli Smith, una professoressa della Sorbona di Parigi inventrice dello “space whisper” un metodo di canto sussurrato e filtrato dai suoi sintetizzatori; Didier Malherbe un sassofonista che vive in una grotta; Hillage un freak cresciuto in università. E poi una moltitudine di musicisti che entrano ed escono dalla band come andare e venire da un pub fumoso. E l’aggettivo non è casuale. Ma i nomi sono quelli di Mike Ratledge, Archie Legget, Nick Evans, Pip Pyle, Tim Blake, Pierre Moerlen, Allan Holdsworth, Mike Howlett, Bill Bruford, Chris Cutler…e qualche altra decina della crema del Rock sperimentale anglosassone. I concerti di una qualsiasi delle mille incarnazioni dei Gong è sempre stato, per me, una boccata d’aria di novità, di inconsueto, di mai sentito. Di diverso, sul serio.
…..Quindicimila battute….e non sono neppure all’inizio. Steven Rich sarà disperato al pensiero di impaginare questa pizza…e Captain Beefheart, gli Hawkwind, i Tubes, i Roxy di Brian Eno, la Parliament/Funkadelic, i Deviants….e Zappa, su tutto. Meglio andare avanti, con calma, la prossima volta. Grazie della pazienza mostrata fin qui. Però, provateci….almeno.
E fateci sapere…
Giancarlo Trombetti